Arriviamo la notte da Los Angeles a bordo di una Ford Mustang nera, con un rumore profondo che viene da sotto la macchina e una spinta sufficiente a inchiodarci ai nostri sedili riscaldati. I chioschi di tacos sulla strada che porta fuori città, lungo il limite inferiore della San Bernardino national forest in direzione est, scorrono rapidamente in un susseguirsi di colori. Il crepuscolo, poi l’oscurità. Il freddo arriva presto, in primavera.

Appena raggiunto il Joshua Tree national park, nella Yucca valley, due o tre ore di auto a est di Los Angeles nel deserto del Mojave, non vediamo niente, neanche gli alberi dalla mistica reputazione. Nemmeno le stelle, perché il tempo ci è ostile, con più nuvole del solito. Troviamo gli accampamenti, tutti con falò e letti per guardare le stelle. Alle quattro del mattino dalla nostra tenda chiamata Soleil sento i coyote che ululano. Per il resto c’è un silenzio totale. L’aria sa di legna: ginepro, mesquite e sandalo.

“Out here in the perimeter there are no stars”, qui lungo il perimetro non ci sono stelle, scriveva Jim Morrison nella sua poesia beat Stoned immaculate. Il perimetro, il confine della ragione, l’orizzonte. Morrison visitava spesso Joshua Tree, da tragico cercatore di tutto quello che è bizzarro, schietto e psichedelico. Nel 1978 Gram Parsons, il mio cantautore statunitense preferito, morì per un’overdose di morfina e alcol al Joshua Tree Inn, nella stanza numero otto. Prima aveva raccontato ai suoi amici, tra cui Keith Richards dei Rolling Stones, di aver avvistato degli ufo nei cieli del deserto.

Sul palco Parsons indossava un abito ideato da Nudie Cohn e ispirato a Joshua Tree, fatto di cactus, pillole, erba, papaveri e un crocefisso. Due amici rubarono la bara all’aeroporto di Los Angeles per impedire che fosse recapitata alla sua ricca famiglia a New Orleans. Seguendo le istruzioni date da Parsons stesso, portarono la salma a Joshua Tree a bordo di un carro funebre “preso in prestito”, poi bruciarono il suo corpo in un punto chiamato Cap rock, dove ancora oggi si trova un monumento funebre.

Atmosfera sacra

La mattina nella Yucca valley – doccia tiepida, sapone da viaggio in una busta con chiusura lampo, cinque gradi all’aperto, neve che luccica sulle montagne del piccolo San Bernardino a ovest e una morbida giacca invernale – mi rendo conto che gli alberi, in realtà tecnicamente piante grasse di Yucca brevifolia, hanno forme umanoidi, con teste e arti. Sono assolutamente vivi in questo luogo duro e spietato. Belli, spettrali e minacciosi.

Molti sono alti sei metri, con estremità appuntite slanciate verso il cielo come un’esaltazione o uno Slender man, culminando in ghirlande a forma di forbice. Il nome spagnolo è izote de desierto, pugnale del deserto. Secondo la tradizione locale, i mormoni diedero agli alberi il nome Joshua mentre si dirigevano a ovest per evangelizzare la popolazione, alla fine dell’ottocento, perché pensavano che indicassero la strada da seguire. Secondo _Il libro di Mormon _(2:6) i nefiti, una tribù di pellegrini mormoni, marciarono verso “la terra di Joshua, al confine occidentale, lungo la costa”. Joshua era un seguace di Mosé, che era un seguace di Dio.

Gli U2 hanno assorbito quest’atmosfera sacra per creare il loro capolavoro, The Joshua Tree, un disco che secondo la rivista Hot Press parla di “siccità spirituale”. Le foto iconiche di Anton Corbijn inserite nell’album sono state scattate durante un’odissea in autobus attraverso il parco nazionale. Sfortunatamente nel testo che accompagna le foto il cantante Bono ha fatto confusione con la Bibbia, scrivendo che gli alberi di Joshua crescono solo in California e Israele. La verità è che crescono solo nel sudovest degli Stati Uniti e in un piccolo pezzo di Messico. sssIl parco è enorme: più di 1.300 chilometri quadrati. Al suo interno si trovano due deserti ad altitudini diverse, il Mojave e il Colorado. Gli alberi coprono gran parte delle aree più elevate. Esistono tre piccoli centri abitati nel Mojave, distanti circa venti minuti di auto l’uno dall’altro in direzione est: Yucca Valley, Joshua Tree e 29 Palms, con la sua gigantesca base militare dedicata all’addestramento dei marines, l’Air ground combat center.

Facciamo le valigie a Yucca Valley e carichiamo la Mustang per andare a bere un caffè a Joshua Tree. L’autoradio trasmette ancora una volta Brass buttons di Gram Parsons. La cittadina è piena di turisti del fine settimana. È sabato mattina e il mercato contadino nella strada principale vende i migliori frutti di bosco che abbia mai mangiato. Al Joshua Tree coffee company c’è la fila davanti a entrambe le porte. È una specie di riunione di appassionati di marche di abbigliamento tecnico, quasi tutti escursionisti arrivati da Los Angeles. L’ottimo bar per la colazione lungo la strada è pieno. Il lampione davanti all’ingresso è una specie di fanzine della controcultura, con adesivi verdi e rosa fosforescente che pubblicizzano gruppi musicali ed eventi, tra cui un appuntamento per guardare le stelle e una festa a tema alieni. Qualche giorno fa si è esibita una band locale chiamata Lost Hiker (“jazz-punk improvvisato”, un inquietante riferimento alle persone che si perdono nel deserto con una frequenza preoccupante.

La terra arida è piena di cunicoli di miniere e ospita sette tipi di serpenti a sonagli

È il mio compleanno, dunque scriviamo il mio nome su un nastro e lo appendiamo a un albero dei desideri in stile buddista dietro un negozio. Un ragazzo più giovane di me fa lo stesso, ma cercando di raggiungere la cima. “È molto alta, amico”, gli dico. “Va bene”, mi risponde. “Anche io sono molto fatto”.

Più tardi, in mezzo al deserto, troviamo un avviso con la scritta “Qui la gente muore”. La terra arida è piena di cunicoli di miniere e ospita sette tipi di serpenti a sonagli. Il clima può essere estremo. Nel loro libro sugli animali del deserto di Joshua Tree, scritto negli anni sessanta, l’ornitologo Alden Miller e lo zoologo Robert Stebbins consigliano a chi si avventura in questo luogo nelle ore più calde di “trovare un punto ombreggiato tra le rocce, sotto un albero di Joshua, dietro a un ginepro o ancora meglio in un’oasi, e restare seduti per conservare l’acqua e mantenere bassa la temperatura corporea attraverso l’immobilità”.

Tartarughe e vedove nere

In questo luogo si prova una sensazione di vasta e pericolosa vacuità – la promessa e la minaccia di qualsiasi vero deserto – ma anche di una bellezza ultraterrena. Le straordinarie formazioni rocciose, create da liquidi primordiali milioni di anni fa, non somigliano a nient’altro su questo pianeta. Le crepe sismiche mostrano un’asimmetria metafisica estenuante.

I popoli indigeni che vivevano qui prima dell’arrivo dei cowboy e dei minatori – per i nativi questo era un luogo di lutto – usano le formazioni rocciose come rifugio per i loro antenati e la loro arte. Il Mojave, al pari della terra nullius dell’Australia, era considerato una terra di nessuno, una terra vuota. All’epoca i nativi delle culture pinto, serrano, chemehuevi e cahuilla furono costretti a spostarsi nelle riserve nonostante il profondo legame con la zona.

I nativi usavano gli alberi di Joshua per ripararsi, ma anche per le fibre, i fiori, gli steli e i semi. Qui l’efedra cresce rigogliosa. Sulla terra si muovono tartarughe, vedove nere e corridori della strada, mentre nel cielo volano avvoltoi, falchi e aquile.

Usciamo dal parco nazionale al confine meridionale e incontriamo una serie di strani posti vicino a dove si svolge ogni anno il festival Coachella: la città fantasma di Desert Center e il lago Tamarisk (un altro nome biblico). Poi giù lungo la Redlands freeway attraverso Mesa Verde e oltre il fiume Colorado, fino in Arizona. “Outside it’s America”, là fuori c’è l’America, canta Bono. In questo, almeno, non sbaglia. Arriviamo a Phoenix prima che faccia buio. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1568 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati