La minaccia turca che incombeva da maggio è stata messa in atto. Una settimana dopo l’attentato che ha causato sei morti e 81 feriti a Istanbul, in Turchia, nella notte tra il 19 e il 20 novembre Ankara ha lanciato un raid aereo contro le regioni curde della Siria e del nord dell’Iraq. L’offensiva fa parte di un’operazione per “eliminare gli attacchi terroristici, garantire la sicurezza delle frontiere e sopprimere il terrorismo”, ha precisato il ministero della difesa. È stata ordinata dal presidente Recep Tayyip Erdoğan prima di andare alla cerimonia di apertura dei mondiali di calcio maschile in Qatar (il 20 novembre alcuni razzi lanciati dal territorio siriano verso la frontiera turca hanno provocato tre morti. Erdoğan ha minacciato un attacco via terra).
Ankara ha preso di mira varie zone controllate dalle Forze democratiche siriane (Fds) e dal Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), che considera gruppi terroristici. In particolare le province siriane di Raqqa e Al Hasaka (nordest), di Aleppo (nord) e la città di Kobane e i suoi dintorni, vicino al confine turco. Dal lato iracheno sono state bersagliate soprattutto le regioni di montagna tra Erbil e la frontiera iraniana. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, un’ong con sede a Londra, il bilancio è di più di 31 morti.
Soner Cagaptay, esperto di Turchia al Washington institute, definisce la strategia di Ankara “l’equivalente politico del formaggio svizzero”. Consiste cioè nel condurre operazioni in Siria per spezzettare le zone controllate dai combattenti curdi delle Ypg (Unità di protezione popolare) in modo che diventino “un’entità non contigua divisa in frammenti”.
Da maggio i soldati turchi sono presenti nelle zone curde semiautonome in Siria controllate dalle Ypg, una milizia affiliata al Pkk, e dai loro alleati del regime siriano. Perseguitati dai droni turchi, i curdi vivono sotto la minaccia di un’offensiva, dato che Ankara ha dichiarato di voler creare una “zona di sicurezza” larga 30 chilometri lungo la sua frontiera meridionale. A settembre Erdoğan aveva ribadito che il suo esercito era “pronto in qualunque momento” per intervenire. Già a metà settembre gli attacchi turchi avevano causato tre morti nel nord della Siria. Questa minaccia si è rafforzata dopo l’esplosione a Istanbul, che le autorità turche hanno attribuito ai combattenti del Pkk e ai loro alleati in Siria. I due gruppi hanno negato ogni coinvolgimento.
Via libera
Nel nord della Siria è in vigore il coprifuoco dal 2019, dopo un altro intervento di Ankara contro i curdi. Allora la Russia e l’Iran avevano condotto una trattativa tra la Turchia e il regime siriano. A luglio Mosca e Teheran hanno ribadito il loro rifiuto a dare il via libera a un intervento turco, prospettando il rischio di “destabilizzazione” della regione. “Sembra che alla fine l’autorizzazione russa ci sia stata. Questo significa che il presidente russo Vladimir Putin si rende conto che il suo rapporto con la Turchia è prezioso”, afferma Cagaptay. Dopo l’invasione russa in Ucraina, infatti, Ankara fa da mediatrice tra le parti in conflitto.
Secondo il ricercatore, un altro fattore potrebbe spiegare la ripresa delle violenze nelle zone curde in Siria e in Iraq: il blocco di Ankara al progetto di adesione alla Nato della Svezia, sospettata dalla Turchia di dare protezione ai combattenti del Pkk e ai loro alleati. “Non c’è stata alcuna reazione dei paesi della Nato, che probabilmente questa volta non vogliono criticare Ankara, perché temono che possa bloccare il processo di adesione della Svezia”, osserva Cagaptay. Un silenzio che potrebbe spingere le autorità turche a proseguire nei loro attacchi. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1488 di Internazionale, a pagina 23. Compra questo numero | Abbonati