L’addio di Neil Young, Joni Mitchell e Crosby, Stills e Nash a Spotify – oltre ad avere il sapore di una reunion – ha generato riflessioni che vanno al di là del dubbio posizionamento etico dell’azienda svedese quando si tratta di ospitare un podcast di disinformazione come quello del comico Joe Rogan. È vero che questo elemento è riuscito a innescare prese di distanza e abbonamenti cancellati dagli utenti, ma è quello più superficiale, anche se non irrilevante.
Sotto c’è un malessere per i compensi miseri agli artisti e la totale destrutturazione dell’opera d’arte che Spotify ha imposto a partire dalla sua popolarità di massa. Ma se le considerazioni su quanto è giusto pagare i musicisti fossero state la leva principale del calo di Spotify, la crisi sarebbe cominciata tempo fa, prima di avere questo esercito di persone che ne sono dipendenti. È un’esagerazione, ma Spotify si è comportata un po’ come la casa farmaceutica statunitense Purdue, che ha messo l’OxyContin sul mercato sostenendo che non creava dipendenza, non faceva male e avrebbe fatto sparire il dolore.
È un dibattito complicato: c’è chi regge questa gratuità che innesca dipendenza senza approfondire l’esperienza, e sa sostenere la musica in modalità assuefatta senza avvertire cali di coscienza e di memoria, e chi si ricorda ancora il mondo prima di Spotify e ha cominciato ad avvertire una nausea enciclopedica. E se decide di andarsene lo fa soprattutto per qualcosa che cede dentro di sé, prima ancora per qualcosa che va storto nel mondo dell’algoritmo. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1447 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati