C’è un mondo sterminato in Aspirin sun di Emma Tricca, per quanto atmosfericamente coerente. Il quarto disco della cantautrice, italiana solo per convenzione di nascita, è uscito per la raffinatissima Bella Union ed è languido, corposo e pieno di riflessi. Si fa inseguire come un coniglio allucinato in tutta una serie di meandri. Sono così belli i dischi che mettono voglia di stanare i significati possibili di una canzone, ripristinando per un attimo il senso ormai vintage dell’album inteso come un’orchestrazione complessa di sentimenti inscindibili.
In Aspirin sun si va da un edificio storico dell’East Village (Christodora house), con cui Tricca ha un legame simbolico, alla casa di Rubens ad Anversa (Ruben’s house) che ispira un brano di quasi undici minuti in cui la voce misteriosa della cantante – calda e matura ma anche incline a piccoli inaspettati collassi – compie un viaggio soul, folk e psichedelico insieme ai musicisti Jason Victor, chitarrista dei Dream Syndicate, e Steve Shelley, batterista dei Sonic Youth. Il risultato è un rimescolio conturbante fatto di autunni e di deserti, di lutti e rinascite vissuti in maniera circolare. C’è spazio per la tenerezza di Devotion, che riporta agli episodi sghembi del cantautorato femminile indie dei primi anni duemila, e per l’intelligenza emotiva di Leaves, un brano che potremmo immaginare nel repertorio di Beth Orton e Cassandra Jenkins, ma che Emma Tricca rende inimmaginabile con un’altra voce: dopo molte visite ai fantasmi musicali del passato, l’artista si ricolloca nel presente, e la canzone diventa sua. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1512 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati