Si è chiusa la quindicesima edizione di Transmissions, il piccolo festival di musica sperimentale che si tiene ogni anno a Ravenna nato dalle intuizioni di Chris Angiolini. Uso lo parola “piccolo” volutamente, anche se le line up proposte, affidate da una decina d’anni a un curatore o a una curatrice – quest’anno era Kali Malone, compositrice statunitense che ha dato una vita parallela all’organo a canne – offrono un’esperienza di ascolto ampia, sia per durata dei singoli concerti sia per varietà di genere. Il piccolo sta per la sensazione di contenimento, di una fruizione concentrata che è congeniale per dei set che possono basarsi sull’accordare uno strumento fino a tirargli fuori suoni da musica classica quasi mostruosi, come avvenuto quest’anno.
Provo sempre una sorta di tenero imbarazzo quando qualcuno vuole vendermi i meriti del vino naturale, dei borghi abitati da trenta persone e della lentezza come qualità umanamente superiori, perché ai fini della formazione del gusto musicale so quanto sia stato importante uscire dalle province, confrontarsi con il gigantismo e la tossicità, esporsi anche a festival pantagruelici come il Primavera o Glastonbury per scegliere poi di rifiutarli, e temo un po’ che il festival piccolo possa diventare sinonimo di festival di élite. Al Transmissions non ho avuto questa sensazione, perché prevale un’idea di cura pura e semplice, in cui le gerarchie tra artista, organizzazione e pubblico sono fluide, forse anche perché ha un alto tasso di adesione da parte di un pubblico straniero, che sta lì incantato e smarrito. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1540 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati