Con tutte le ossa
Da bambina, negli anni in cui studiavo danza classica, mi hanno detto che con quell’impostazione sarei stata in grado di ballare qualsiasi cosa, che avrebbe dato una forma alle mie ossa e che quella forma avrei potuto anche romperla se fossero cambiati i miei desideri. È la stessa cosa che mi hanno detto quando studiavo antropologia: quegli studi sarebbero stati il mio nuovo scheletro, da abbigliare e spogliare come preferivo, ma che con quella base potevo andare molto lontano. È quello che penso ascoltando Closer, il quarto disco di Maria Chiara Argirò, la cui sensorialità avvolgente e malinconica è perfetta per questa fine primavera.
La formazione da pianista e gli studi e la pratica del jazz possono portarla sulla pista da ballo o ai festival di elettronica senza che la sua ossatura perda riconoscibilità, ma è proprio questa caratteristica a renderla così intelligente e particolare. Maria Chiara Argirò è l’ulteriore conferma che, dopo una fase di sperimentazione musicale negli anni settanta, le artiste italiane che lavorano con la manipolazione dei suoni e hanno un rapporto meno convenzionale con la melodia sono in una fase di rinascimento personale. Argirò contribuisce a questa specie di “scuola” eclettica e informale con una sensibilità consolidata nel tempo, e Closer rivela il suo gusto per la variazione: Grow è come ascoltare Four Tet su un autobus a due piani all’alba e ci si ricorda che a Londra non c’è il mare; Time si basa sugli infiniti potenziali riflessi di una voce. E poi c’è la raffinatezza cospiratoria di Koala. ◆