Julian Casablancas ha detto che Last nite è invecchiata male e gli dà la nausea e il Pitchfork Music Festival a Chicago chiude i battenti dopo diciannove anni. Al centro di un discutibile vibe shift nell’estate del 2023, l’estetica indie-sleaze di ritorno è già stata archiviata come un relitto e pare che nulla della cultura dei millennial che gravitava intorno alla musica abbia lasciato un’eredità strutturale. Semmai, come nel caso del Primavera Sound, è rimasto un marchio. Spariscono stili e forme, ma quegli anni tra il 1999 e il 2016, volendo usare queste date per indicare l’emersione e l’affievolimento del discorso indie anche in Italia, fanno quasi spavento per quanto era tenace la capacità di memorizzare band, dischi e concerti. Riascoltando la ristampa di Dei cani dei Non voglio che Clara in onore del quindicesimo anniversario del disco, riemerge un approccio all’ascolto che stava a metà tra le tabelline e la messa, quando l’elevazione romantica e poetica garantita da canzoni scritte benissimo si accompagnava anche a un processo di apprendimento, di ostinazione a ricordare e a non sciupare le occasioni per migliorarsi. Ripetere quell’attimo non ha alcun senso storico né fisiologico, ma la ricchezza della band (dimostrata anche dai nomi dei collaboratori coinvolti nel disco) sta in questo senso di inaspettato salvataggio rispetto ai detriti. Nel 2010, quando Dei cani usciva per l’etichetta Sleeping Star, ero convinta che i Non voglio che Clara, a differenza di tanti colleghi, fossero più bravi del loro citazionismo. Lo penso ancora: si sono salvati così. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1589 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati