Mia madre, sorda dall’età di quattro anni, ha sempre goduto di un rapporto particolare con i dispositivi per ascoltare la musica, in particolare con i walkman che i suoi fratelli oltreoceano le facevano arrivare appena usciva un modello nuovo. Di recente mi ha chiesto di comprargliene un altro: senza walkman (anche se non sente niente, nel senso che posso intendere io) non riesce a dipingere, è una specie di caschetto magico che rende un prodigio possibile. Di colpo ho pensato a Lo sguardo di Vic. Il mondo prima e dopo il walkman di Stefano Solventi, uscito per Jimenez.
Per raccontare l’impatto dello strumento sul nostro modo di percepire tempo, musica e memoria Solventi, già critico culturale e musicale sul Mucchio Selvaggio e su Sentireascoltare, parte dalla celebre inquadratura in cui Vic, nel film Il tempo delle mele del 1980, interpretata da Sophie Marceau, si sente mettere delle cuffie di un walkman in testa e assume un’espressione “irrigidita, come se si fosse di colpo trasformata nell’eroina disforica di un fotoromanzo: le funzioni vitali sospese, la coscienza collassata in un ‘qui e ora’ totalizzante”. Si trova nello stesso posto, ma è altrove. Lo sguardo di Vic è un interessante esperimento di sovrainterpretazione, in cui una fase della vita collettiva (dagli anni ottanta al futuro già scaduto) si definisce per eccesso di materiali, discesi dalle esperienze personali dell’autore ma anche dal suo modo di trattenere simboli precisi. Dal walkman di Vic si passa a quello di Julia Roberts in Pretty woman e quello di Max in Stranger things, attraverso stati diversissimi di coscienza. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1606 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati