Non ho seguito la carriera di Marina Rei con attenzione, colpevole di averla archiviata negli anni festivalbarieri delle mie estati scolastiche quando le sue discordanze vocali, tra percussioni jazz e un pop simile a quelle caramelle che frizzavano acide in bocca prima di rivelare un cuore più tenero, facevano convivere lei, Dido, Carmen Consoli e perfino Neneh Cherry in uno spazio di consonanza. Sono stata contenta, però, di sentire il suo singolo Domenica dicembre, che anticipa un album in uscita a maggio. Inconfondibile la produzione di Riccardo Sinigallia, ma pure la sua voce quando dice “Come stai? Io non mi abituo mai”.
Il brano è dedicato al padre scomparso, e l’ho ascoltato mentre leggevo Stelle cadenti di Laura Marzi, romanzo sul disincanto appena uscito per Mondadori. Sarà che la protagonista ha 18 anni nel 1993, anno in cui assiste al declino della figura paterna insieme a quello di un intero sistema politico, ma la voce nel libro e quella di Rei creano un comune effetto di riverbero nel tempo, come se ci fossero dei momenti in cui ci trasformiamo da sole in sassi che scagliamo nell’acqua per vedere quanti cerchi di tristezza e meraviglia sappiamo creare. Canzone che insiste sulle conseguenze di un legame a prescindere dalla morte, Domenica dicembre mi fa ritrovare quello che di Marina Rei mi era mancato senza saperlo in questi anni: una scrittura che non si vergogna di produrre significato, una gentilezza e una sapienza melodica degna di attenzione anche se non corre rischi, qualità che sembrano patrimonio quasi esclusivo di quella generazione disincantata. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1609 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati