Nessuno dubita che Albert Einstein avesse una mente geniale. Eppure il premio Nobel, padre delle teorie della relatività ristretta e della relatività generale, non aveva un cervello particolarmente grande. “Era più piccolo della media”, rivela Jeremy DeSilva del Dartmouth College, in New Hampshire.

Può sembrare sorprendente. Un cervello di grandi dimensioni è una caratteristica distintiva dell’anatomia umana, di cui andiamo molto fieri. Altre specie sono più veloci o forti, ma noi possiamo contare sull’intelligenza associata a un grosso cervello. O almeno è quello che crediamo. Il cervello di Einstein dimostra che le cose non sono così semplici e alcune scoperte recenti lo confermano.

Negli ultimi vent’anni abbiamo imparato che specie di ominidi dal cervello piccolo sono sopravvissute per molto tempo dopo la comparsa di altre più dotate. Inoltre emergono prove sempre più numerose del fatto che questi ominidi avessero un comportamento elaborato. Alcuni, per esempio, costruirono utensili di pietra complessi che probabilmente avrebbero potuto essere realizzati solo da individui capaci di linguaggio.

Queste scoperte hanno rovesciato le vecchie teorie sull’evoluzione del cervello umano. “Perché”, si chiede DeSilva, “la selezione naturale ha favorito le specie con un cervello grande se gli ominidi dal cervello piccolo riuscivano a sopravvivere nel loro ambiente?”. Il tessuto nervoso consuma una grande quantità di energia, dunque i cervelli grandi devono necessariamente aver garantito un vantaggio alle poche specie che li possedevano. Ma quale?

Più del necessario

Una risposta a questo enigma sta cominciando a delinearsi. A quanto pare l’espansione del cervello è cominciata come un incidente evolutivo, per poi provocare cambiamenti a catena che hanno favorito la crescita. Le alterazioni che hanno innescato l’espansione del cervello potrebbero spiegare perché in tempi recenti le dimensioni del cervello umano si sono ridotte del 10 per cento. Inoltre suggeriscono che il nostro cervello potrebbe continuare a contrarsi e potrebbero anche provocare la fine del genere umano.

Il cranio di un bambino di Homo naledi (Wits University)

Che il cervello degli ominidi sia cresciuto nel tempo è innegabile. Il Sahelanthropus tchadensis, la più antica specie di ominini conosciuta, vissuto in Nordafrica circa sette milioni di anni fa, aveva un cervello di circa 360 centimetri cubici di volume. Oggi le dimensioni medie di un cervello umano sono il quadruplo, attorno ai 1.350 centimetri cubici. Certo, parte della differenza è dovuta al fatto che l’Homo sapiens è più grande di quasi tutti i suoi antenati. Lucy, un’ominina vissuta 3,2 milioni di anni fa, era alta appena un metro e dieci. Animali più grandi tendono ad avere cervelli più grandi, sottolinea Amélie Beaudet dell’università di Cambridge. “Ma c’è bisogno di un’altra spiegazione, visto che a un certo punto la massa corporea dei nostri antenati ha smesso di crescere, mentre quella del cervello continuava ad aumentare”.

Fino a pochi decenni fa la spiegazione era sembrata ovvia. Molti ricercatori presumevano che l’albero evolutivo degli ominini fosse piuttosto semplice, soprattutto rispetto agli sviluppi avvenuti due o tre milioni di anni fa con il passaggio dalle specie simili ai primati ai primi esponenti del genere Homo. L’idea di fondo era che solo una specie potesse occupare un ambiente in un dato periodo, spiega Philipp Gunz dell’istituto Max Planck di antropologia evolutiva di Lipsia, in Germania.

Secondo questa teoria l’Homo habilis avrebbe prosperato finché non è stato sostituito dall’Homo erectus, a sua volta rimpiazzato dall’Homo heidelbergensis e poi dall’Homo sapiens in Africa e dai neandertal in Eurasia. In ognuno di questi casi la specie successiva aveva un cervello più grande rispetto alla precedente. La nozione che gli esseri umani con cervelli più grandi fossero più intelligenti e superiori sul piano evolutivo rispetto agli antenati dal cervello più piccolo non era quasi mai messa in discussione.

Il professor Lee Berger con alcuni reperti di H. naledi (Brett Eloff, Wits University)

Poi alcune scoperte straordinarie hanno smentito questo presupposto. Tutto è cominciato vent’anni fa, quando alcuni ricercatori hanno scoperto in Indonesia l’Homo floresiensis, un essere umano alto un metro e dieci centimetri con un piccolo cervello di 425 centimetri cubici, sopravvissuto fino a un’epoca incredibilmente recente: 50mila anni fa secondo le stime attuali. Questo significa che il pianeta era popolato da umani dal cervello piccolo ancora molto tempo dopo la comparsa della nostra specie, trecentomila anni fa. L’Homo floresiensis, inoltre, era in buona compagnia. Circa cinque anni fa un’altra scoperta ha rivelato l’esistenza dell’Homo luzonensis, sopravvissuto nelle Filippine più o meno fino allo stesso periodo. Il piccolo Homo naledi, scoperto nel 2013, aveva un cervello di appena 550 centimetri cubici, ma è sopravvissuto in Africa del sud accanto alle specie con cervelli più grandi almeno fino a 235mila anni fa.

Inoltre oggi abbiamo le prove di un fenomeno ancora più sbalorditivo: a quanto sembra, gli ominini dal cervello piccolo erano capaci di un comportamento complesso. Un esempio significativo arriva da un’area archeologica chiamata Gona, in Etiopia, dove l’Homo erectus ha vissuto circa 1,6 milioni di anni fa producendo utensili di pietra acheuleani. Questi manufatti, di cui fanno parte asce a forma di lacrima, sono talmente difficili da realizzare che secondo gli studiosi era indispensabile una forma di linguaggio almeno rudimentale per insegnare e imparare la tecnica di fabbricazione. Questo farebbe presumere che gli individui in questione avessero grandi cervelli, ma uno studio del 2020 ha rivelato che almeno alcuni di loro avevano cervelli grandi meno della metà dei nostri.

Nel 2023 è stata fatta una scoperta simile. Prima di essere in grado di produrre gli utensili acheuleani, gli ominini costruivano utensili olduvaiani, leggermente più semplici. Per molto tempo gli scienziati hanno ritenuto che questi utensili fossero opera dell’Homo habilis, una specie con un cervello di circa 550 centimetri cubici. Poi però in un sito chiamato Nyayanga, in Kenya, sono stati trovati utensili olduvaiani risalenti a tre milioni di anni fa accanto a fossili di Paranthropus, un ominino con un cervello di circa 450 centimetri cubici. Nonostante le dimensioni ridotte del suo cervello, dunque, il Paranthropus potrebbe aver prodotto gli utensili olduvaiani, sottolinea Beaudet.

La teoria più stupefacente riguarda l’Homo naledi. Dopo aver studiato per dieci anni una grotta in Sudafrica che contiene i resti di più di 15 individui, nel 2023 i ricercatori hanno concluso che il sito rivela segni di un comportamento complesso: l’Homo naledi avrebbe usato torce durante il trasporto dei morti in una profonda camera sepolcrale, le cui pareti sono state decorate con incisioni. Per alcuni studiosi questa tesi è troppo audace. “Non credo che il naledi seppellisse i morti o facesse incisioni nelle grotte”, afferma Gerhard Weber dell’università di Vienna. Comunque sia, i ritrovamenti di Gona e Nyayanga suggeriscono che gli ominini non avessero bisogno di una grande quantità di tessuto nervoso per comportarsi in modo complesso. Spiegare l’evoluzione dei cervelli grandi diventa quindi un rompicapo.

Un cranio di Homo naledi (John Hawks, Wits University)

Teste da sfamare

A complicare le cose è il fatto che i cervelli grandi comportano alcuni evidenti svantaggi. Hanno bisogno di una grande quantità di energia: il nostro cervello “consuma” circa il 20 per cento del nostro apporto energetico, nonostante rappresenti appena il 2 per cento della nostra massa corporea. Inoltre un bambino con un cervello grande è difficile da partorire e da allevare. “Il parto è più complicato, così come sfamare un bambino con un cervello in crescita continua”, spiega DeSilva.

Eppure il cervello degli ominini si è effettivamente ingrandito nel corso degli anni. Alla conferenza della Società europea di studi sull’evoluzione umana organizzata in Danimarca nel 2023, Thomas Püschel e i suoi colleghi dell’università di Oxford hanno sostenuto che questa tendenza è stata alimentata soprattutto dai cambiamenti in determinate specie. Per esempio i primi esemplari di Homo erectus, apparsi nei reperti di due milioni di anni fa, avevano un cervello di 550 centimetri cubici di volume, ma negli ultimi rappresentanti della specie, vissuti 108mila anni fa, il volume era raddoppiato.

Weber ha presentato un’analisi secondo cui il tasso di espansione del cervello non è stato costante. Tra sette e due milioni di anni fa il cervello degli ominini è cresciuto lentamente, da circa 360 a 450 centimetri cubici. In seguito il tasso di crescita è aumentato, arrivando ai 1.350 centimetri cubici 110mila anni fa. Da allora l’accelerazione è stata ancora più rapida e il volume ha raggiunto un picco di 1.500 centimetri cubici cinquantamila anni fa, alla fine dell’età della pietra.

Secondo un’ipotesi molto diffusa questa espansione è legata ai cambiamenti nell’alimentazione. “L’idea è che quando gli ominini hanno cominciato a mangiare carne più spesso hanno avuto l’energia necessaria per sviluppare un cervello più grande”, spiega Beaudet. Questo potrebbe spiegare com’è avvenuta l’espansione del cervello, ma non perché. Qual è stato il vantaggio evolutivo di destinare una quantità maggiore di energia al cervello invece che ad altre parti del corpo?

Famiglie e tribù

◆ Secondo la classificazione scientifica attuale l’essere umano moderno (Homo sapiens) è l’unica specie vivente del genere Homo, di cui facevano parte altre specie umane oggi estinte come i neandertal e l’Homo naledi. Tutte queste specie appartengono alla tribù degli ominini, che comprende anche gli scimpanzé e gli australopitechi, progenitori degli umani. In base alle scoperte più recenti, l’essere umano è quindi classificato così:
Famiglia: Hominidae (comprende l’essere umano moderno, gli scimpanzé, i gorilla e gli oranghi)
Sottofamiglia: Homininae (non comprende gli oranghi)
Tribù: Hominini (umani, scimpanzé e progenitori estinti)
Genere: Homo
Specie: Sapiens


Soluzione di ripiego

Un’ipotesi alternativa cerca di rispondere a questa domanda. Afferma che alcuni ominini hanno cominciato a vivere in gruppi sociali più numerosi e per adattarsi hanno dovuto sviluppare cervelli più grandi. “Se il tuo ambiente sociale è più complesso, potresti aver bisogno di un cervello più grande per affrontare questa complessità”, spiega Beaudet. Ma anche questa idea pone dei problemi, perché parte dal presupposto che le dimensioni del cervello siano correlate a quelle dei gruppi sociali in tutte le specie di primati, mentre i ricercatori non hanno trovato prove di questa tendenza.

Cercare di collegare l’espansione del cervello a un singolo fattore potrebbe essere sbagliato. Il miglioramento della dieta e la crescita dei gruppi sociali avranno avuto la loro importanza, ma è probabile che ci sia di più. Un’ipotesi è che i cervelli e il comportamento siano stati coinvolti in un ciclo di retroazione. Forse gli ominini dal cervello più piccolo hanno creato nuovi utensili e sviluppato abilità linguistiche rudimentali, incrementando le proprie possibilità di sopravvivenza. Se gli individui con cervelli leggermente più grandi trovavano più facile padroneggiare queste tecniche e comportamenti, la dimensione media del cervello dev’essere aumentata con il passare del tempo. E man mano che i cervelli diventavano più grandi, la popolazione potrebbe aver incontrato minori difficoltà nel migliorare le tecniche di produzione di utensili e di linguaggio, innescando un’ulteriore selezione dei cervelli più grandi e rendendo la produzione ancora più semplice. “L’evoluzione non inventa all’improvviso nuove strutture cerebrali che permettono agli umani di parlare. Succede il contrario”, spiega Christoph Zollikofer dell’università di Zurigo. “Gli umani cominciano a parlare e questo crea un ambiente culturale in cui emergono nuove pressioni selettive che favoriscono nuove strutture cerebrali”.

Questo però non spiega in che modo cervelli più grandi abbiano facilitato la produzione di utensili o lo sviluppo del linguaggio. Beaudet ha un’idea. Partiamo dal presupposto che la dieta ricca di carne abbia creato un surplus di energia e che parte di questa energia abbia alimentato la crescita dei cervelli, semplicemente perché doveva essere usata in qualche modo. Al contempo, con la crescita dei cervelli, è emerso un problema. “A un certo punto non c’era più spazio nella scatola cranica”, sottolinea Beaudet. Di conseguenza la superficie del cervello, che era già ripiegata negli umani più primitivi, avrebbe assunto un andamento ancora più complesso di pieghe e solchi. Questo ripiegamento potrebbe aver avvicinato neuroni di regioni distinte, facilitando le connessioni. Per puro caso, alcune di queste potrebbero aver semplificato la costruzione di utensili o l’uso del linguaggio. In altre parole, l’espansione del cervello in sé potrebbe non aver garantito alcun vantaggio in termini di sopravvivenza, ma potrebbe averne assunto uno in modo casuale. A quel punto la selezione naturale avrebbe fatto il resto.

Crescita cerebrale
Volume interno del cranio in alcune specie di ominini, centimetri cubici (Fonte: S. Montgomery (Current Biology))

Questo ragionamento potrebbe spiegare perché il cervello di Einstein misurasse appena circa 1.290 centimetri cubici di volume, e perché le donne siano intelligenti quanto gli uomini pur avendo cervelli leggermente più piccoli. Se l’evoluzione ha favorito i cervelli connessi meglio invece di quelli più grandi, allora si spiega come mai il variare delle dimensioni del cervello non ha effetti sulle prestazioni. Detto questo, le dimensioni contano almeno fino a un certo punto, e questo solleva alcuni interrogativi su un fenomeno curioso della nostra storia evolutiva: negli ultimi millenni i cervelli si sono rimpiccioliti, passando da 1.500 a 1.350 centimetri cubici. Questa contrazione potrebbe essere dovuta alle stesse cause che hanno favorito la crescita: lo sviluppo di nuove tecniche e comportamenti complessi.

Pensateci voi

In uno studio del 2021, DeSilva e i suoi colleghi hanno analizzato i dati di centinaia di antichi crani per individuare il momento in cui è partita la contrazione. “Siamo rimasti allibiti da quanto il fenomeno sia recente: parliamo di un periodo compreso fra tremila e cinquemila anni fa”, spiega. Questo fa pensare che le dimensioni dei cervelli si siano ridotte in un momento preciso, ovvero quando sono apparse le prime civiltà e nuove tecnologie come la scrittura. DeSilva ritiene che non sia una coincidenza, ma che grazie a queste innovazioni gli umani abbiano inavvertitamente allentato la pressione evolutiva che favoriva gli individui con un cervello più grande. Per esempio, la scrittura ha permesso di immagazzinare la conoscenza esternamente invece di affidarsi alla memoria. Le società complesse, nel frattempo, hanno fatto in modo che le decisioni cruciali per la sopravvivenza fossero prese a livello di gruppo. Di conseguenza le necessità cognitive degli individui si sono ridotte, permettendo ai cervelli di rimpicciolirsi. “È una teoria affascinante”, ammette Püschel pur sottolineando che bisognerà testarla in modo più approfondito.

In ogni caso oggi i ricercatori accettano l’idea che i cambiamenti nella società e nelle tecniche possano influenzare l’evoluzione e la forma dei nostri cervelli. Per alcuni la grande domanda è se questo sviluppo va ancora a nostro vantaggio. Weber teme che non sia così, e suggerisce che in futuro, grazie all’avvento dell’intelligenza artificiale, per gli umani possa diventare sempre meno importante avere cervelli grandi. “Mi preoccupa il fatto che le macchine possano arrivare a produrre altre macchine. Se un’intelligenza artificiale sarà in grado di creare un’intelligenza artificiale migliore senza il nostro intervento, quale sarà il nostro ruolo?”. In uno studio del 2023 Weber ha ipotizzato l’avvento di “un’era post-umana” in cui l’intelligenza artificiale e altre tecnologie potranno produrre “esseri abiotici” e sostituire gli umani.

Altri esperti sono meno allarmati. Anche se in passato il cervello umano si è ridotto quando gli individui hanno cominciato ad affidarsi a nuove tecnologie, gli umani hanno continuato a prosperare. In questo senso Baudet ritiene che dovremmo considerare l’intelligenza artificiale come l’ultimo capitolo di una lunga serie di innovazioni, cominciata con le pietre che i nostri antenati usavano per elaborare il cibo. Esattamente come quegli utensili, l’intelligenza artificiale potrebbe migliorare l’efficienza con cui eseguiamo alcune mansioni, concedendoci più tempo per immaginare altre tecnologie.

“È così fin dall’inizio della storia umana, e credo che continuerà a essere così”, spiega Baudet. “Sono un po’ preoccupata, ma non credo che l’intelligenza artificiale dominerà il mondo”. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1580 di Internazionale, a pagina 61. Compra questo numero | Abbonati