Nelle brulicanti strade di Città del Capo, in Sudafrica, è un continuo via vai di malridotti minibus bianchi. Usati da decenni come taxi collettivi sono ancora il principale mezzo di trasporto, soprattutto per chi appartiene alla classe operaia nera che, prima a causa dell’apartheid e ora per la povertà e il collasso delle infrastrutture, non può permettersi di comprare un’auto o di prendere i mezzi di trasporto pubblici.
L’11 gennaio 2024 un gruppetto di ragazzi è radunato intorno a un minibus parcheggiato vicino a Greenmarket square, nel centro storico della città. Un altoparlante trasmette in diretta dall’Aja il ricorso del Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia (Cig), in cui accusa di genocidio lo stato di Israele.
Ci sono volute due settimane per avere un primo parere della corte, e potrebbero volerci anni per arrivare a una sentenza definitiva. Ma intanto i giudici hanno annunciato alcune “misure preliminari”. Non si sono spinti a chiedere un cessate il fuoco, come chiesto dal Sudafrica. Ma hanno intimato a Israele di prevenire atti di genocidio, compresa l’uccisione di palestinesi, definendo il ricorso del Sudafrica “plausibile”. Il parere ha provocato un terremoto. Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite nei Territori occupati palestinesi, ha affermato che il ricorso “probabilmente ha aperto una nuova era nelle relazioni tra il nord e il sud globale”. La ministra degli esteri sudafricana Naledi Pandor l’ha inquadrato nel contesto della storia nazionale: “Il Sudafrica ha sconfitto l’oppressione dell’apartheid. Ce la faranno anche i palestinesi”.
Tutto questo avviene in un momento particolarmente significativo: quest’anno i sudafricani saranno chiamati alle urne per la settima volta dal 1994, anno in cui finì l’apartheid, che riservava il diritto di voto solo ai bianchi. Per la prima volta l’African national congress (Anc), il partito che da allora è al potere, potrebbe ottenere meno del 50 per cento dei voti e perdere la maggioranza assoluta in parlamento.
Le nove vite dell’Anc
L’iniziativa del Sudafrica ha colto molti di sorpresa, tenuto conto della debole reazione iniziale del governo dell’Anc ai bombardamenti israeliani su Gaza.
“È interessante cercare di capire cos’abbia spinto un governo con una politica estera fino a quel momento piuttosto accondiscendente ad assumere un ruolo così attivo e progressista”, afferma Patrick Bond, direttore del Centre for social change dell’università di Johannesburg. “Il Sudafrica non aveva promosso iniziative di Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni (Bds) verso Israele e non aveva interrotto le relazioni diplomatiche. Alla luce del ricorso, ora sarebbe impossibile ripristinarle”.
Questo cambiamento di atteggiamento rischia di avere gravi ricadute economiche per il Sudafrica: per esempio, ci si chiede se Washington gli revocherà l’accesso preferenziale ai suoi mercati previsto dall’accordo Africa growth and opportunity act (Agoa). “In questo caso, subiremmo perdite e tagli di posti di lavoro nel settore minerario, in quello automobilistico, nella siderurgia, nel petrolchimico e perfino in quello vinicolo”, afferma Bond. “Parliamo di esportazioni per un valore di circa tre miliardi di dollari”.
Il fatto di aver assunto un ruolo di primo piano al livello internazionale è servito a tenere alto il morale della classe dirigente dell’Anc, in un periodo in cui i risultati interni lasciano a desiderare. Trent’anni di democrazia e un programma di black economic empowerment (sviluppo economico dei neri) hanno cambiato il mercato e creato una nuova classe media nera, ma quando si visitano alcuni quartieri di Johannesburg viene da chiedersi se l’apartheid sia davvero finito.
Nonostante uno sbandierato programma di ridistribuzione delle risorse, nelle statistiche ufficiali come quelle della Banca mondiale il Sudafrica è tra i paesi con le più gravi disuguaglianze al mondo. La corruzione è considerata endemica, soprattutto nelle più importanti aziende statali come la Eskom, che fornisce l’elettricità. Il Sudafrica sta ancora facendo i conti con gli anni di governo del discusso ex presidente Jacob Zuma, al potere negli anni della “conquista dello stato” portata avanti dai Gupta, una famiglia di miliardari che è riuscita a sottrarre, grazie ai suoi agganci politici, almeno 15,5 miliardi di rand (761 milioni di euro) di denaro pubblico.
Durante una commemorazione a Soweto in onore del leggendario fotoreporter Peter Magubane, che con il suo lavoro mostrò a tutto il mondo la lotta contro l’apartheid, ho conosciuto Seth Mazibuko. Nel 1976 era il più giovane tra i leader della rivolta studentesca scoppiata nella township di Soweto dopo la decisione del governo segregazionista di imporre l’afrikaans (la lingua introdotta dai primi coloni olandesi bianchi) nelle scuole bantu, le uniche che i neri potevano frequentare. Arrestato dopo le rivolte, Mazibuko trascorse diciotto mesi in una cella in isolamento e sette anni a Robben island, il carcere di massima sicurezza riservato ai prigionieri politici. A differenza di tanti suoi compagni di prigionia, Mazibuko non scelse di fare politica dopo la fine dell’apartheid, ma non ha mai rinunciato all’attivismo. Di recente è stato arrestato per aver protestato contro l’installazione di contatori elettrici prepagati a Soweto, dove vive ancora oggi.
“L’Anc non può fare niente per rimettersi in sesto”, mi dice in un bar nell’elegante quartiere di Rosebank, a Johannesburg. In un episodio in particolare il partito non si è comportato come avrebbe dovuto, spiega Mazibuko. Si riferisce al massacro nella miniera di Marikana nel 2012, quando la polizia sparò contro la folla uccidendo 34 lavoratori in sciopero. Il tutto avvenne in collusione con l’attuale presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, che all’epoca era nel consiglio d’amministrazione della miniera.
“I sudafricani hanno dato all’Anc varie possibilità di redimersi. C’è chi dice: ‘Portiamo il partito in terapia intensiva’. Ma, per favore, non all’obitorio: magari si troverà una cura, e diventeranno dei politici migliori. In futuro potremmo ancora avere bisogno dell’Anc”, sostiene. Durante l’apartheid l’Anc ha lottato dalla clandestinità, dall’esilio e dal carcere per affermare i princìpi della Freedom charter (carta della libertà), compreso quello per cui “la proprietà delle ricchezze del sottosuolo, delle banche e dei settori industriali monopolistici deve essere trasferita a tutto il popolo”.
Tuttavia, secondo Ronnie Kasrils, ex capo dell’intelligence dell’uMkhonto weSizwe (Mk, fino al 1993 il braccio armato dell’Anc), e più tardi ministro con i presidenti Nelson Mandela e Thabo Mbeki, il movimento di liberazione ha stretto un “patto faustiano” con le grandi imprese e il precedente regime, facendo concessioni così grandi da ostacolare fin da subito la realizzazione del suo programma politico.
Colonialismo d’impresa
La storia del progetto di sviluppo immobiliare River club, a Città del Capo, illustra meglio di altre il fallimento delle rivendicazioni contenute nella Freedom charter.
Nel 2015 il fondo fiduciario Liesbeek leisure properties trust (Llpt) comprò dalla Transnet, l’azienda pubblica che gestisce ferrovie e porti, un’area di 14,7 ettari nel quartiere di Observatory, pagandola solo 12 milioni di rand (580mila euro). Poco tempo dopo fu annunciato che Amazon ci avrebbe costruito il suo quartier generale in Africa. L’iniziativa era sostenuta dal consiglio municipale di Città del Capo, con il sindaco Dan Plato che la definiva uno “stimolo significativo all’economia”. A Città del Capo e nella provincia del Capo Occidentale governa il partito di Plato, la Democratic alliance (Da), il principale partito d’opposizione al livello nazionale.
Intorno al progetto della Amazon è poi scoppiata una disputa, alle cui radici c’è la storia di quei terreni: lì abitarono per millenni i popoli indigeni khoi, chiamati spregiativamente “ottentotti”, e san, che in passato erano chiamati anche “boscimani”. Durante la battaglia di Salt river, nel 1510, i khoi sconfissero un distaccamento di marinai portoghesi invasori. Cent’anni dopo, nel 1612, i khoi e i san combatterono una serie di guerre contro gli olandesi proprio sui terreni individuati per il cantiere, e firmarono una pace particolarmente sfavorevole, in base alla quale le terre passarono ai coloni olandesi, i free burgers. Fu l’inizio degli insediamenti europei che da quel momento in poi determinarono la storia del paese. I discendenti dei khoi e dei san non poterono più vivere secondo le loro tradizioni.
Tauriq Jenkins, capo del Goringhaicona khoi khoin indigenous traditional council (una delle organizzazioni che rappresentano i diritti dei popoli nativi), guida la lotta per proteggere le terre ancestrali dalle mire di Amazon: “La storia si ripete nello stesso luogo in cui il furto di terre indigene fu legittimato da atti di proprietà basati sul diritto romano-germanico”, mi spiega in un bar vicino al River club. “La segregazione, le proprietà private, sono nate lì. Questo è un epicentro di liberazione e resistenza”.
Dopo la presentazione dei primi progetti per il River club, i costruttori hanno stretto con un’associazione di khoi e san, il First nations collective, un accordo per la realizzazione di un “centro culturale e multimediale dedicato alla preservazione del patrimonio”, ottenendo il loro benestare. Nel marzo 2022 la corte suprema della provincia del Capo Occidentale ha bloccato i lavori dopo un ricorso presentato da Jenkins. Ma un altro ricorso contestava la legittimità di Jenkins come rappresentante del consiglio indigeno, accusandolo di aver riportato in modo scorretto la posizione degli anziani, che in realtà sarebbero stati favorevoli al complesso. Una sentenza del novembre 2022 ha accolto l’accusa, sollevando Jenkins dal suo ruolo e il divieto di costruzione è stato revocato.
Nel gennaio del 2024 Jenkins ha presentato un nuovo ricorso per ribaltare l’ordinanza. Uno dei suoi avvocati è Tembeka Ngcukaitobi, che ha collaborato all’istanza presentata dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia. Secondo Jenkins la rappresentante dell’Llpt, Jody Aufrichtig, il suo socio Mark Fyfe e il procuratore Tim Dunn “hanno cospirato per neutralizzare l’opposizione al progetto immobiliare di Amazon”. Il fascicolo presentato al tribunale contiene anche una deposizione firmata da Ebrahim Abrahams, ex capo del consiglio tradizionale e in passato favorevole alla costruzione del complesso, che sostiene di aver sentito dire dagli anziani indigeni di aver ricevuto offerte di denaro.
Dopo l’intervista, Jenkins mi accompagna a piedi a vedere il cantiere. Mi dice di aver ricevuto minacce di morte e che un tribunale ha ordinato di metterlo sotto protezione. Prendersela con le multinazionali è un affare rischioso.
Le case e i negozi in periferia lasciano il posto a un burrone incolto, dietro a cui si scorge il cantiere. Lo scintillante edificio di Amazon sembra finito, ma Jenkins fa notare che dall’altro lato è un guscio vuoto di cemento e vetro. Perciò facciamo il giro. Tra una grande arteria stradale e il fiume, tra le fredde strutture industriali di Amazon e le imponenti montagne alle sue spalle, emerge chiaramente in cosa consista la lotta per un Sudafrica che non dipenda dalla più grande azienda del mondo e dal suo continuo sfruttamento di terreni e manodopera.
Mentre torniamo indietro verso i negozi e i bar di Observatory sentiamo il rumore di un’auto. “È strano”, dice Jenkins. “Di solito non arrivano fin qui”. Una Land Rover blu si dirige verso di noi. A bordo ci sono due uomini bianchi, di circa sessant’anni. Il veicolo si ferma a pochi metri da noi e i due scendono. Hanno le facce arrossate e ci guardano male. Io mi fermo, poi Jenkins mormora con tranquillità: “Suggerisco di continuare a camminare”.
Mentre attraversiamo il ponte, i due uomini continuano a fissarci e a seguirci. Il sentiero comincia a scendere. Guardo in alto e vedo che hanno lo sguardo ancora fisso su di noi. “Penso che sappiamo entrambi che genere di uomini sono”, dice Jenkins.
Sgradevole
Al mio rientro nel Regno Unito, ho contattato Aufrichtig, Fyfe e Dunn, le tre persone accusate di aver “neutralizzato” l’opposizione al progetto di Amazon, per avere un loro commento sulle accuse nei loro confronti. Quando ho fatto notare ad Aufrichtig l’episodio della Land Rover, ha risposto: “Non abbiamo addetti alla sicurezza. Ma bisogna stare attenti, quell’area può essere un po’ sgradevole. Ma di sicuro non eravamo noi”. Dopo aver detto di non voler rispondere a nessuna delle mie domande, la responsabile dell’Llpt ha proseguito descrivendo le decine di “tentativi di estorsione” che il progetto avrebbe subìto da parte di anziani a caccia di tangenti. “Siamo orgogliosamente sudafricani e non lasceremo che accada. Non ci piegheremo ai tentativi di estorsione anche se nell’ambiente in cui viviamo le cose vanno così”.
Successivamente ho ricevuto un’email dalla Resolve communications, un’azienda di pubbliche relazioni creata da Tony Leon, ex leader nazionale della Democratic alliance. Conteneva una dichiarazione dell’Llpt secondo cui l’ultimo ricorso presentato da Jenkins “è una richiesta non solo vessatoria, ma anche infondata, di fatto un abuso delle procedure”. Inoltre, proseguiva, il fondo fiduciario “non è a conoscenza di rivendicazioni avanzate da Jenkins e dai suoi soci”, ha “sempre agito in modo professionale ed etico, rispettando le volontà dei singoli e dei gruppi delle prime nazioni”, e accusava Jenkins e “i suoi sostenitori” di “usare i mezzi di comunicazione per portare avanti una campagna di disinformazione”.
La protesta contro il complesso di Amazon sulle terre ancestrali khoi e san è un proseguimento della lotta anticoloniale
Dunn, l’avvocato del gruppo di khoi e san che ha contestato la legittimità di Jenkins a rappresentare il consiglio, ha respinto le accuse come “false e diffamatorie”. Fyfe non ha risposto alla mia richiesta di un commento. Lo stesso vale per la Amazon.
Per gli attivisti la protesta contro il complesso di Amazon sulle terre ancestrali khoi e san è un proseguimento della lotta anticoloniale e contro l’apartheid nella provincia del Capo Occidentale.
Nel 1950 il governo sudafricano approvò il Population registration act, una legge che introdusse le divisioni razziali e la categoria coloured, intermedia tra bianco e nero. La storica Tshepo Masango Chéry spiega che nei censimenti coloniali dell’ottocento si usavano le categorie “europeo”, “kafir” e “ottentotto” per i neri, insieme a quella di “altro”, quest’ultima “associata alla vergognosa… presenza del meticciato”. Il concetto di coloured incasellava le persone di origine mista in un’identità precisa, “ma dai contorni indefiniti”, afferma Masango Chéry. I coloured, che “erano sfuggiti a quel tipo di divisioni in passato”, smettevano di avere un’identità basata sulla legittimità delle relazioni miste.
Dopo il 1950 i khoi e i san finirono nella categoria delle persone coloured, e ancora oggi ne pagano le conseguenze. Il loro è stato definito un “genocidio incruento”, anche se il trattamento che hanno subìto non è stato affatto gentile. Angelo Louw, di Greenpeace Africa, conclude: “La collocazione dei khoi e dei san nella categoria coloured impedisce alla società di immaginarli come qualcosa di diverso”.
Le ferite di questa eredità sono aggravate dalla povertà che oggi affligge la popolazione coloured del Capo Occidentale. Molti vivono ghettizzati nelle township delle Cape flats, un’area disabitata fino agli anni cinquanta e dove tante comunità coloured sono state trasferite forzatamente da aree che secondo la nuova classificazione erano destinate solo ai bianchi. Anche se la Democratic alliance è apprezzata per l’amministrazione efficiente di Città del Capo e della sua provincia, è stata comunque criticata per non aver saputo affrontare la segregazione, la povertà e la violenza criminale nelle Cape flats.
Bandiere palestinesi
Per molti il senso del ricorso presentato dal Sudafrica contro Israele sta nell’eredità condivisa dell’apartheid. Tuttavia, anche nel caso sudafricano non si tratta di una vicenda consegnata alla storia.
“La crisi dell’acqua, ampiamente annunciata, ha colpito il Sudafrica. Il tempismo è sfortunato per il governo dell’African national congress (Anc) perché mancano solo due mesi alle elezioni, previste il 29 maggio”, scrive Bloomberg. “A marzo un’ampia zona di Johannesburg, la città più grande del paese, è rimasta a secco per quasi due settimane. L’azienda regionale che fornisce acqua potabile ha avvertito che in tre aree metropolitane, con una popolazione complessiva di più di 13 milioni di abitanti, i suoi sistemi sono vicini al collasso. Anche le élite urbane si sono rese conto di essere minacciate dalla carenza idrica, e che il problema non riguarda solo remote località di campagna”. Le cause del pessimo stato della rete idrica, riassume il giornalista Anthony Sguazzin, non sono diverse da quelle che hanno portato ai blackout programmati (visto che l’azienda pubblica Eskom non riesce a fornire energia elettrica a sufficienza) o alle difficoltà nei porti e sulle ferrovie (gestite da un altro ente pubblico, la Transnet): mancanza di investimenti, manutenzione carente, pianificazione inadeguata, incompetenza e corruzione dilagante. La città di Johannesburg spreca, a causa delle perdite e dei furti, più del 40 per cento dell’acqua che compra. Il governo ha promesso di riformare il settore, coinvolgendo anche aziende private.
Ma in questi ultimi anni si sono levate parecchie voci contro quello che il chiama “apartheid dell’acqua”. In particolare, cinque anni fa la siccità aveva portato Città del Capo vicino al day zero, cioè al giorno in cui le autorità avrebbero dovuto chiudere i rubinetti costringendo i cittadini a rifornirsi nei punti di distribuzione. Alcuni interventi, anche radicali, hanno permesso di allontanare quella prospettiva. Tuttavia ancora una volta si è visto che, mentre i ricchi potevano farsi scavare dei pozzi o comprare acqua in bottiglia in grandi quantità, i poveri degli insediamenti informali dovevano aspettare le cisterne inviate dal governo e risparmiare sui pasti per poter comprare l’acqua. ◆
“I sudafricani capiscono bene il significato della Nakba palestinese del 1948, perché fu lo stesso anno in cui in Sudafrica andò al potere il National party”, dice Jenkins, riferendosi alla cacciata e all’esproprio dei palestinesi dopo la fondazione dello stato di Israele. “Il destino del Sudafrica è legato in molti modi a quello dei palestinesi”. Ma il punto cruciale per Jenkins è che, pur avendo superato l’apartheid formale, “noi sudafricani siamo ancora ben lontani dall’aver sconfitto la condizione di apartheid”.
A Città del Capo la rilevanza della vicenda è chiara. Il 12 gennaio, il giorno in cui Israele ha esposto la sua difesa all’Aja, un gruppo di attivisti ha occupato gli uffici dell’amministrazione locale guidata dalla Da. Gli attivisti del Cape youth collective si sono stesi per terra coperti da bandiere palestinesi e sotto una gigantografia di Nelson Mandela e dell’arcivescovo Desmond Tutu, mentre gli altoparlanti trasmettevano il rumore delle bombe sganciate su Gaza. Nei volantini distribuiti si leggeva: “Dalle Cape flats a Gaza: la Democratic alliance resta a guardare mentre si versa del sangue”.
Con la protesta si volevano anche sottolineare le similitudini tra la gestione delle comunità impoverite delle Cape flats e il modo in cui Israele ha ghettizzato i palestinesi. “Nella provincia del Capo Occidentale le comunità nere e coloured votano per la Da, però tra i lavoratori c’è un forte sostegno al popolo palestinese e alla loro lotta”, afferma il sindacalista Abeedah Adams.
Jenkins è d’accordo: “Il governo israeliano sostiene che gli abitanti di Gaza equivalgono ad Hamas, che rappresentano un pericolo per sé e per gli altri. Qui si dicono esattamente le stesse cose delle Cape flats: che sono piene di criminali, che sono pericolose per se stesse e per gli altri, che vanno isolate e circoscritte. Si tratta di tentativi di pianificazione dello spazio urbano molto simili e con ricadute paragonabili”.
Il ricorso del Sudafrica contro Israele potrebbe servire anche a riconoscere le ingiustizie subite dai khoi e dai san, che per alcuni hanno causato un “genocidio”. “La causa presentata all’Aja ha un enorme significato per tutti noi perché afferma un genere di giustizia riparativa di forte richiamo non solo per i palestinesi, ma anche per le comunità tradizionali in Sudafrica”, dice Jenkins. “Potrebbe aprire un vaso di Pandora africano sul tema della giustizia riparativa intergenerazionale e sulle questioni legate al genocidio”.
Jenkins spera nella creazione di una commissione per la verità e la riconciliazione per i popoli khoi e san: “Vogliamo ottenere un percorso di giustizia riparativa, l’ammissione che il genocidio è avvenuto, e un impegno ad affrontare questioni come la perdita della lingua, i trasferimenti forzati e il trauma intergenerazionale”.
Oltre a mostrare che i paesi del sud globale possono svolgere un ruolo attivo nelle istituzioni internazionali, il ricorso del Sudafrica potrà avere conseguenze interne. Con i servizi pubblici al collasso, i livelli record di disoccupazione, la povertà e la violenza, la prospettiva di una rivalutazione nazionale dei popoli indigeni non rientra tra le priorità di molti sudafricani. Ma è un’opportunità per mettere le forze di governo davanti alle loro responsabilità. E se la lezione impartita dal ricorso alla Cig è che la giustizia è universale, allora è giusto che le cose vadano così. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1556 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati