Non sono una persona religiosa, ma sono sempre stato affascinato dalla rappresentazione cinematografica del fervore religioso. Un concetto così potente che s’impossessa di un personaggio, si esprime attraverso una retorica spinta all’eccesso e si offre a interpretazioni stravaganti: insomma uno spettacolo irresistibile (i miei preferiti sono Marjoe del 1972 e Red hook summer del 2012). Gli occhi di Tammy Faye, che racconta l’ascesa e la caduta della star evangelica Tammy Faye Bakker (e insieme a lei del marito predicatore Jim Bakker), rientra nella categoria e, nei momenti migliori, spinge i temi religiosi in direzioni affascinanti che spianano la strada a interpretazioni (giustamente) sopra le righe. Purtroppo questi momenti (che si devono sostanzialmente all’ardore dell’estasi cristiana ben rappresentata da Jessica Chastain) sono pochi, a causa della regia e della deferenza del film al genere delle biografie.
Richard Brody, The New Yorker
Stati Uniti 2021, 126’. In sala
Francia 2021, 97’. In sala
“Sembra la storia di una donna che se ne va”, recita la sinossi ufficiale. Raramente ne abbiamo viste di più enigmatiche. E il film è all’altezza del mistero. Seguiamo Clarisse che all’alba abbandona una casa addormentata, sale in macchina e fugge verso il mare. Se ne va. O se n’era già andata? La vita nella casa continua. O ricomincia? Cambia: i bambini crescono, le stagioni si susseguono. Siamo perduti in questo smarrimento, doloroso e delizioso, perché è lo smarrimento di Clarisse. E noi siamo nella sua testa e nel suo cuore. Qui e ora. Ieri e altrove. Impossibile dire di più senza svelare l’essenza del film, la verità che muove la protagonista. Adattando l’opera teatrale di Claudine Galéa, Mathieu Amalric ci porta nel turbine interiore, materializza i pensieri, i desideri e le paure di una donna sull’orlo di un abisso insondabile. Stringimi forte è un film concettuale che si fa organico, anche grazie all’interpretazione di Vicky Krieps, diafana e terrena, ordinaria e sublime, presente e lontana.
Isabelle Danel, Bande à part
Spagna / Grecia 2021, 109’. In sala
Un tempo il presente era merce così rara nel nostro cinema da sembrare esotico. Anche per questo c’è sempre stato un rispetto quasi revenziale verso la cosiddetta necessaria prospettiva storica. Ora è diverso: con la rivoluzione delle serie, con i documentari che sono diventati mainstream, il presente è diventato una materia prima molto usata. Open Arms va inserito e apprezzato in questo contesto. E la storia di Open Arms e di Óscar Camps è materiale troppo pregiato per non essere sfruttato dal cinema. Conosciamo così Camps e i suoi compagni soccorritori, li seguiamo nel loro viaggio a Lesbo, vediamo il loro impegno a favore dei profughi che fuggono dalla guerra e dalla miseria. Nel film di Marcel Barrena c’è anche molta attenzione ai dettagli. Ma la cinepresa rimane sempre ad altezza d’uomo: non prova a vendere niente, non nasconde nulla e soprattutto emoziona senza cedere alla propaganda.
Tony Vall, Cinemanía
Regno Unito / Francia / Germania 2021, 95’. PrimeVideo
Christian Carion firma il remake britannico del suo Mon garçon (2017). Stesso titolo, stesso concetto: anche qui il regista ha chiesto all’interprete principale (Guillaume Canet nel primo film, un carismatico James McAvoy in questo) di lavorare senza sceneggiatura, “scoprendo quello che succede nello stesso momento in cui lo scopre il pubblico”. Il tutto è però meno brillante di come sembra. Edmond (McAvoy) e Joan (Claire Foy) sono divorziati. Lei vive in Scozia con il figlio che improvvisamente scompare. Edmond torna a casa, comincia a seguire le indagini, si rende conto che il figlio è stato rapito e decide di prendere in mano la situazione. Le improvvisazioni di McAvoy sono promettenti. Il problema è che il film dà la priorità all’esperienza dell’interprete rispetto a quella del pubblico. La trama è poco strutturata perché dev’essere così, ma le carenze narrative rovinano il divertimento.
Hilary White, Irish Independent
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