Questo album toccante e appassionato è stato registrato nello studio di Levon Helm il 3 giugno del 2011. È la testimonianza dell’incontro tra due vecchi amici, il cui rapporto risale a quando nel 1976 The Band fece il suo concerto d’addio The last waltz (che fu ripreso da Martin Scorsese) chiudendolo con gli Staples Singers come ospiti. È anche una delle ultime performance di Helm, che sarebbe morto il 19 aprile 2012. Ma quello che lo rende veramente speciale è la dinamica tra i due artisti, sottolineata già dalla scelta del repertorio tra gospel, soul, rhythm’n’blues e folk: ci sono grandi standard, un classico di Bob Dylan (Gotta serve somebody) e la prevedibile, necessaria The weight della Band, tutto con alle spalle musicisti trascinanti. Fermezza e riscatto sono i sentimenti cardine di tutto lo show: quando Mavis scaglia l’appassionato appello per la giustizia e l’umanità di This is my country di Curtis Mayfield, il suo diventa un veemente atto d’accusa contro il disordine e le tragedie che infestano gli Stati Uniti di oggi. Carry me home ha un fortissimo impatto nel ricordarci l’irresistibile potenza che può nascere da una canzone e una spiritualità condivise. È un documento straordinario, che raggiunge tutti gli obiettivi implicitamente annunciati dal suo stesso titolo: portami a casa. E rende il passato presente con intensità e determinazione.
Lee Zimmerman, American Songwriter
“È ora di smettere di scappare da me stesso” afferma Obongjayar nel brano che dà il titolo al suo debutto. Risuona come un mantra, nel mondo in technicolor in cui lui è al centro. Finora il musicista londinese di origini nigeriane, che si chiama Steven Umoh, ha messo insieme una serie di successi grazie a quattro ep e collaborazioni con Little Simz, Pa Salieu e Jeshi. La sua voce passa dai bassi gutturali ai falsetti costruendo un vasto immaginario sonoro. Some nights I dream of doors celebra l’amore e la vita; Try apre il disco riflettendo sulle innumerevoli possibilità dell’infanzia, appunti per sogni e aspettative non realizzati. Message in a hammer è un inno alla resistenza popolare. Con rabbia l’artista denuncia la violenza e l’arroganza della corruzione di stato, riferendosi alla polizia nigeriana. Ma ci sono anche momenti più teneri, come in All the difference, che coglie l’intimità sotto le luci di una cucina, raccontandoci che sono i piccoli gesti a fare la differenza. Obongjayar lascia che la sua arte si esprima in forme diverse, come nei videoclip, che aiutano a entrare nel suo universo, dove le prospettive sono molteplici e ci aiutano a comprendere un po’ di più cosa si nasconde dietro a quelle porte.
Bryony Holdsworth, Diy
Her Columbia Graphophone recordings
L’arte di Johanna Martzy (1924-1979) era stata forgiata nell’Europa centrale degli anni tra due guerre. Allieva del leggendario Jenő Hubay all’accademia Franz Liszt di Budapest, la violinista ungherese dimostrò subito un talento fuori dal comune. Ma il suo temperamento forte, la scelta di dare la precedenza alla vita familiare e la sua simpatia per il regime filonazista di Miklós Horthy negli anni trenta la allontanarono dalla scena e dagli studi di registrazione. I suoi pochi dischi erano stati un po’ dimenticati. Ora la pubblicazione di questo cofanetto, che ne raccoglie il materiale Emi degli anni cinquanta, testimonia la sua autorità imperiale e lo splendore della sonorità del suo violino Carlo Bergonzi del 1733. In particolare il concerto di Brahms, con la Philharmonia diretta da Paul Kletzky, è di livello assoluto. Le sonate e partite di Bach fanno mostra di fraseggio e semplicità superiori, in una lettura sobriamente romantica. L’integrale dell’opera per violino e piano di Schubert rivela un lirismo vibrante anche se sempre composto. Ottime le note di copertina, che ripercorrono tutte le ambiguità di una carriera folgorante.
Jérémie Bigoire, Diapason
Articolo precedente
Articolo successivo
Inserisci email e password per entrare nella tua area riservata.
Non hai un account su Internazionale?
Registrati