Nei quindici giorni del festival di Cannes il messaggio ci è stato ripetuto allo sfinimento: i film sono oggetti preziosi, bisogna proteggerli, essere benevoli nei loro confronti, non essere avari d’aggettivi che li facciano risplendere e smettere di rompere tutto a martellate. La casa brucia, non è il momento di annaffiare il giardino con la benzina. Quel che occorre, per usare l’espressione di Rossy de Palma alla cerimonia di chiusura, è “fare l’amore con il cinema”. Ok, va bene andare a letto con qualcuno, ma non con chiunque.
Malgrado la retorica finale del presidente della giuria Vincent Lindon, il quale ha assicurato che tutti i film erano grandi opere, il 2022 è stato un’annata di qualità media, piena al massimo di capolavori in miniatura, allegri o sgradevoli. Il palmarès lo dimostra. La giuria ha voluto riempire tutte le caselle, portare avanti la grande tradizione di accontentare tutti, al limite dell’esecrabile. Ha così ignorato l’eccezione Albert Serra e il suo incredibile Pacifiction, si è limitata a un ex aequo di consolazione per la folle audacia di Jerzy Skolimowski, ha ignorato Les amandiers e Showing up, troppo sottili per i giurati, oppure il troppo austero Barādarān-e Leylā di Saeed Roustayi. Per premiare chi? Non Ruben Östlund, vero?
Invece sì. Già vincitore della Palma d’oro nel 2017 per la sua farsa The square, il regista svedese non cambia registro con questo affresco su alcuni miliardari trascinati in una tempesta. Purga chic, controllato con maestria fredda e misantropa, apologo antiliberista firmato da un cineasta di destra esperto di cinismo catartico, Triangle of sadness, ha come culmine la sequenza comica di un’ultima cena, in cui tutti gli invitati perdono ogni dignità e si vomitano addosso.
Dominanti e dominati
Già nel 2019 con Parasite, la giuria aveva premiato un attacco frontale al divario tra dominanti e dominati, ma nel film di Bong Joon-ho c’era un’attenzione per i personaggi che in Östlund non c’è. Per lui l’importante è accomunare tutti alla luce del loro egoismo e dei rapporti di forza. Dimostrare che non esiste alcuna solidarietà e che gli ex sfruttati, se ne hanno la possibilità, sono pronti a imporre la loro legge. Lindon, nella cerimonia di apertura ha definito il cinema “arma di emozione di massa”, ma la sua giuria ha scelto d’incoronare il freddo cinismo e l’opportunistico elitismo di un regista la cui astuzia consiste nello sfruttare quelle stesse cose che denuncia, stadio supremo della celebrazione cannibale del capitalismo trionfante.
A parte questo, tra i 21 film in concorso la giuria ha lavorato sodo per mettere insieme oggetti molto diversi in quello che è sembrato uno strano livellamento, distribuendo premi qua e là come tanti lustrini (come quello eccezionale per il troppo sobrio Tori e Lokita dei fratelli Dardenne, già vincitori di due Palme, o quello a Song Kang-ho, già premiato nel 2019 per Parasite e in giuria l’anno scorso, come miglior attore nello scialbo Broker). Curioso che Eo di Jerzy Skolimowski abbia condiviso il premio della giuria con Le otto montagne di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch: più che una strana coppia.
Rivisitazione contemporanea e folle di Au hasard Balthazar di Robert Bresson, il formidabile Eo segue le tribolazioni di un asino che, dopo aver perso il lavoro in un circo in seguito alle proteste degli animalisti, si ritrova coinvolto in una serie di esperimenti in cui la resistenza fisica dell’animale incatenato e picchiato, destinato a diventare un insaccato, si fonde con la potenza mitologica che trasforma il mondo in visioni distorte, stravolte ed esilaranti attraverso una serie di sgroppate e di fantasticherie.
Al confronto Le otto montagne impallidisce. Charlotte Vandermeersch ha spiegato di aver voluto fare “un film sulla vita”, ma a noi è sembrato più che altro un insipido racconto di un’amicizia tra due ragazzi diversi in tutto, atrocemente prevedibile nelle sue immagini di scampagnate sulle cime della Valle d’Aosta, così come nei dialoghi.
La denuncia del patriarcato è il tema ricorrente di tutti i film selezionati a Cannes quest’anno. Non sorprende che Holy spider di Ali Abbasi sia stato incluso nella lista dei vincitori, grazie al giusto premio come miglior attrice per Zahra Amir Ebrahimi. L’attrice iraniana interpreta una giornalista che si mette sulle tracce di un assassino di prostitute nella città santa di Mashad: una donna emancipata che lotta contro i pregiudizi di una società bigotta e misogina.
Metà della selezione
Film senza donne, Boy from heaven di Tarik Saleh, efficace ma piuttosto convenzionale, ha vinto il premio per la sceneggiatura per la sua critica ai torbidi intrighi all’interno della prestigiosa università islamica di Al Azhar, osservati attraverso gli occhi di un giovane studente squattrinato. Rivelatosi con Omicidio al Cairo, il regista svedese di origine egiziana incoraggia tutti i registi che fanno sentire la loro voce sfidando le autorità egiziane.
Altro habitué dei festival – questo è il suo terzo premio a Cannes, dopo il gran premio per Old boy (2003) e il premio della giuria per Thirst (2009) – con Decision to leave Park Chan-wook si è lasciato andare e ha finalmente invertito la rotta del suo cinema di maniera, abbandonando l’iperviolenza e le scene troppo esplicite per mettere in scena un seducente thriller romantico in cui un investigatore s’innamora della sua principale sospettata. Ma è tutt’altro che un capolavoro.
La giuria non ha potuto fare a meno di assegnare un altro premio ex aequo, il gran prix (sono dieci i film premiati, quasi la metà della selezione), riproponendo il binomio giovane talento/regista affermato che aveva visto Jean-Luc Godard e Xavier Dolan incoronati contemporaneamente. Questa volta sono Claire Denis e il belga Lukas Dhont a spartirsi il premio. Il secondo lungometraggio di Dhont, Close, racconta l’amicizia tra due tredicenni, Léo e Rémi, che finisce in tragedia. La forma è talmente costruita, bella e trattenuta da sembrare sempre più aberrante man mano che il dramma si avvicina. La violenza suicida si oppone al sentimentalismo, ma il suo acido non riesce mai a intaccare la vernice lucida di un’opera che sembra la pubblicità di uno shampoo biologico alle erbe.
Quanto a Stars at noon di Claire Denis, non è il suo miglior film. Ma tra i meriti di questo finto thriller atmosferico e disordinato c’è quello di essere una vera storia d’amore che descrive un’intimità unica. Margaret Qualley interpreta una giornalista statunitense persa sullo sfondo di un afoso Nicaragua: “Sei così bianco che mi sembra di essere scopata da una nuvola”, dice. La sua battuta riassume perfettamente tutto Stars at noon. ◆ ff
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Questo articolo è uscito sul numero 1463 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati