L’ultimo romanzo della colombiana Pilar Quintana è un’opera precisa, affilata come un coltello, calata in un ambiente selvaggio e feroce che incrudelisce i suoi personaggi. Damaris ha vissuto tutta la sua vita tra il mare e la giungla, abbronzata dalla morte che le alita sempre sul collo, con Rogelio e i cani come unica compagnia. La comunicazione tra i diversi personaggi sembra irrimediabilmente interrotta. Narrata in terza persona, la storia comincia con un dialogo in cui una delle tante cagne avvelenate sulla spiaggia lascia una cucciolata di orfani. Doña Elodia nutre i cuccioli con una siringa, mentre si lamenta del destino degli animali. D’impulso, Damaris decide di portare con sé una cucciola: la cagna che dà il titolo al romanzo e che lei chiamerà Chirli, come avrebbe chiamato un’ipotetica figlia. Damaris nutre l’animaletto con un contagocce, come se fosse un neonato, lo nasconde nel suo seno voluttuoso per tenerlo al caldo, lo consola nelle notti di tempesta e gli riserva le migliori parti del pollo. Ma anche se la coccola, la cagna cresce e l’animalità di un rapporto che all’inizio è fatto di tenerezza, compassione e generosità si trasforma in furia cieca quando la vede tornare tutta puzzolente dopo giorni passati nella giungla o quando, in due occasioni, Chirli arriva incinta. Questo fattore trasforma l’animalità da istinto materno a istinto omicida, definendone l’esito. La cagna ci porta in una relazione che a un certo punto sembra la promessa di riscatto per una donna sconfitta, ma che alla fine ci risveglia con un ultimo colpo di realtà, onesto e doloroso.
Melba Escobar, El Tiempo
“I tuoi capelli sono l’unica cosa selvaggia che ti è rimasta”, dice un fantasma alla nipote, che dopo essere stata lasciata si è fatta rimuovere tutti i peli corporei per aumentare la propria autostima. Si tratta della rivisitazione di una storia di fantasmi giapponese in cui una donna di nome Kiyohime è respinta dal suo fidanzato, s’intrufola nel tempio in cui lui lavora, è trasformata in un mostro dalla sua stessa rabbia e lo intrappola nella campana del tempio. Una storia raccontata dal punto di vista dell’uomo, in cui la donna-demone dovrebbe essere temuta, si trasforma in una storia da cui le donne moderne possono trarre ispirazione: “Voglio che tu combatta come ha fatto Kiyohime”, dice il fantasma alla nipote. In questa raccolta di racconti della scrittrice giapponese Matsuda Aoko le tradizionali storie di fantasmi giapponesi sono rielaborate in chiave femminista. Una donna riesuma uno scheletro da un fiume durante una battuta di pesca e diventa amante del fantasma che ha liberato, che nella storia originale era stato ucciso dall’uomo che lei aveva rifiutato di sposare: “Che bastardo era quel tipo”, dice la nuova fidanzata. Questi fantasmi non sono gli spiriti mostruosi e vendicativi delle storie originali. Sono persone reali con la capacità di decidere, finalmente liberati dalle costrizioni imposte alle donne. Divertente, bello, surreale.
Claire Kohda, The Guardian
Nel romanzo del libanese-statunitense Rabih Alameddine, i volontari dell’isola greca di Lesbo tirano fuori dal mare famiglie distrutte, alcuni con compassione, altri scattando grotteschi selfie accanto a donne fradice. Vogliono “sentirsi meglio con se stessi, sia nel senso di ‘Guardatemi, sono il tipo di persona che aiuta i rifugiati’, sia nel senso di ‘La mia vita può fare schifo, ma la vostra fa ancora più schifo’”. Nel frattempo, i giornalisti cinici cercano storie. Il romanzo di Alameddine è raccontato attraverso la lente onesta della dottoressa Mina. Donna trans, nata come terzo figlio di una famiglia libanese tradizionale, lascia Beirut per Harvard, trascinandosi dietro i ricordi amari di una madre violenta e di un padre che le consigliava: “In privato mangia secondo i tuoi gusti, ma in pubblico comportati secondo quelli del pubblico”. Si afferma come medico abile ed empatico. A cinquant’anni va a Lesbo per fare volontariato. La dottoressa Mina è la voce che i rifugiati si meritano: rispettata dagli europei, ma immersa nelle loro tradizioni e nella loro storia. Per la prima volta, un romanzo dà ampio spazio ai tratti negativi di alcuni volontari del campo e alle umiliazioni che infliggono agli sfollati. Le osservazioni di Alameddine sono incisive e piene di arguzia, e insistono sul tema dell’assurdità umana.
Dina Nayeri, The New York Times
Quasi nessun modello è idealizzato come quello della “buona madre”. Per esserne all’altezza, le donne lavorano come schiave, in casa e fuori. È anche vero che quasi nessun’altra figura è presa di mira dalla letteratura con la stessa intensità. Hila Blum, per esempio, dimostra che i bambini sono abusati anche quando diventano uno schermo di proiezione per le loro madri. In Come amare una figlia, tuttavia, non si tratta solo della realizzazione della madre attraverso la figlia, ma anche del troppo amore. Per la protagonista Joela, la figlia Lea diventa lo scopo decisivo della vita. Il fatto di avere bisogno di lei l’ha liberata da una grave depressione. Il ruolo di madre, pur con tutte le responsabilità e le fatiche, è stato per lei una salvezza, non un colpo di grazia. Da quella relazione di dipendenza la figlia può liberarsi solo scappando. Non esiste una “buona madre”, ci sono solo donne che cercano di essere buone madri e falliscono sempre. Forse perché alla fine sono solo una cosa: esseri umani.
Elisa von Hof, Der Spiegel
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