Adattarsi, non c’è altra scelta. In Mustang, la splendida novella centrale di Canoe, la protagonista è costretta a evolversi per adattarsi al suo nuovo mondo, per esempio superando l’esame per la patente di guida. Francese, va a vivere per qualche mese con il suo compagno Sam e il loro figlio Kid in una zona del Colorado con un paesaggio spettacolare eppure familiare per via dei tanti film western visti insieme. Ma nonostante si sia già acclimatata al luogo grazie alla cultura popolare, è disorientata e tiene duro, “testarda e resistente”. Per quanto riguarda Kid, si adatta molto rapidamente. Anche Sam, al punto che la sua voce, “il tono, la gamma, tutto”, cambia, anche quando parla in francese con lei. La voce, le sue inflessioni, ciò che la scompone e ciò che la amplifica, la storia individuale e quella collettiva: tutto questo è discusso in otto racconti in prima persona, tentativi molto riusciti di trovare un timbro singolare per sette narratori e una narratrice. Ci sono immagini di primati che ricordano il tempo in cui i borborigmi e le “modulazioni vocali” dei nostri antenati non erano ancora un linguaggio articolato. Ci sono reperti della preistoria e simboli dei popoli amerindi, ai quali le canoe del titolo permettevano di comunicare. Ci sono anche uccelli che cantano. Ma non tutto è strettamente tematico e in alcuni passaggi la raccolta sa essere anche molto commovente. Meditazione sul tempo, Canoe colpisce per la densità della sua semplicità.
Raphaëlle Leyris,Le Monde
Il nuovo romanzo di Mary Lawson comincia con una crisi: a Solace, una piccola città dell’Ontario settentrionale, all’inizio degli anni settanta, la sedicenne ribelle Rose, dopo l’ennesima lite furibonda con la madre, ha finalmente messo in pratica la sua minaccia di scappare di casa. Quando, dopo un paio di settimane, la polizia di Toronto non ha ancora nessuna pista, s’ipotizzano i peggiori scenari possibili. La scomparsa di Rose, però, è solo il punto di partenza. Ciò che Lawson intende esplorare è la famiglia, in particolare le madri, e i modi in cui possono incasinare la vita dei figli. Il perno di tutto questo è Liam Kane, un trentenne di Toronto che arriva a Solace dopo aver saputo di essere l’unico erede della casa e del patrimonio di Elizabeth Orchard, un’anziana vedova. Il momento è propizio: Liam è nel mezzo di una crisi personale e il suo recente divorzio gli ha fatto capire che odiava anche il suo lavoro di contabile. Ha solo un vago ricordo della sua benefattrice, che è stata per breve tempo sua vicina di casa da bambino. Anche se da adulti lui e Elizabeth si sono scambiati qualche lettera, non è riuscito a dedurre dalla corrispondenza il ruolo di primo piano che evidentemente ha avuto nella vita della donna. Il romanzo ruota i punti di vista dei personaggi, adottando una sorta di cucitura narrativa a ritroso, in cui ogni cambio di voce ci riporta leggermente indietro nel tempo. Un romanzo ricco di sfumature, che s’interroga su cosa significa essere una famiglia.
Emily Donaldson, The Globe and Mail
In Storia del figlio, la freccia del tempo attraversa cento anni e tre generazioni per conficcarsi nella memoria del più giovane. Alla fine del romanzo di Marie-Hélène Lafon, Antoine Léoty si trova al cimitero il 28 aprile 2008. Sta pensando al padre morto, il figlio del titolo. Un romanzo denso, per usare un aggettivo che, nel corso del libro, è impiegato per descrivere un fiume, una capigliatura, dei ragazzi e degli alberi. In un arco di dodici giorni, Marie-Hélène Lafon racconta la storia di un destino costruito intorno a una persona assente, un “buco”. André è nato nel 1924 da padre ignoto. La madre, invece di crescerlo, lo affidò alla sorella. Da un lato, una donna parigina single ed elegante che torna a Figeac, in Occitania, solo tre volte all’anno. Dall’altro, una madre amorevole sposata con un brav’uomo. Le loro figlie sono felicissime che l’adorabile cugino André condivida la loro vita. Cresciuto in questo clima, André si allontana il più possibile dal suo profondo senso di vuoto per non aver conosciuto il padre. Marie-Hélène Lafon crea continui flashback senza essere ingannevole. Rimane ancorata alla psicologia dei suoi personaggi. Il tronco principale e i rami sono famiglie decimate dalla prima guerra mondiale e ammaccate dalla seconda.
Claire Devarrieux, Libération
Kim Jin-a denuncia il suo collega e fidanzato per violenza domestica. Quando la legge infligge all’uomo una multa solo simbolica, lei pubblica su internet le storie di come è stata abusata e ottiene così il sostegno e la simpatia delle altre persone. Tutto questo però subisce una brusca inversione di tendenza quando un utente lascia un commento in cui si dice che è una bugiarda e che è lei la colpevole. Da vittima innocente, Kim è rapidamente dipinta come una prepotente. L’autrice Kang Hwa-gil, nata nel 1986, ha dichiarato: “Siamo la generazione a cui hanno insegnato fin da piccoli che entrambi i generi sono uguali. Ma alla prova della realtà questo non è vero. Per anni abbiamo assistito all’ascesa del femminismo, ma la vita di una donna comune non si libera così facilmente dal pensiero patriarcale radicato a fondo nella società. Così, quando si verifica un caso di violenza domestica, una donna tende a considerarlo un problema personale, incolpando sé stessa, invece di trovare la spiegazione nella struttura sociale. La società le fa pensare che potrebbe essere stata lei a provocare l’incidente”.
Park Jin-hai, The Korea Times
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