The Fabelmans di Steven Spielberg offre uno sguardo privato sul regista più famoso del mondo, che finora ci ha tenuti a distanza. I suoi anni di formazione sono semi-romanzati nella storia di Sammy Fabelman, un ragazzo che scopre il suo amore per il cinema mentre la sua famiglia va in pezzi. Comincia a fare dei piccoli film casalinghi, incoraggiato dai suoi genitori che però pensano che quello svago dovrebbe occupare solo una parte del suo tempo. Trascorriamo la maggior parte del film con l’adolescente, un eccellente Gabriel LaBelle, che lotta con la sua passione mentre è alle prese con la crisi del matrimonio dei suoi genitori (Paul Dano e Michelle Williams). Dopo Roma di Alfonso Cuarón abbiamo visto molti grandi autori dare vita al loro passato, seguendo una linea sottile tra indagine e indulgenza vanitosa. Spielberg è spesso ingiustamente considerato un regista troppo sentimentale, ma qui è relativamente sobrio e ancorato alla realtà. La sceneggiatura, di Spielberg e Tony Kushner, supera molte trappole, concentrandosi su emozioni piccole e non facili da raccontare. Mentre il giovane impara a far contento il suo pubblico, a casa i genitori sono in difficoltà. Il lavoro del padre li porta a spostarsi da uno stato all’altro, accrescendo la tensione con lo “zio” Benny (Seth Rogen), che diventa più di un semplice amico di sua madre. The Fabelmans evita qualsiasi confusione. I traumi della depressione, del bullismo, dell’antisemitismo, del divorzio e dell’infedeltà sembrano fatti in modo da diventare parte di una cartolina nitida e bella. Il film salta da un momento all’altro e rende il dramma un po’ sottodimensionato. Quasi tutti sono convinti che, dopo quattro nomination, stavolta Williams vincerà l’Oscar, e la sua è certamente una performance insolita e potente, spinta da un’energia che non siamo abituati a vedere nelle madri di periferia dagli anni cinquanta e sessanta. La cosa più indulgente della rivisitazione nostalgica di Spielberg è la durata. Ma è un tragitto dolce, a volte incredibilmente accattivante.
Benjamin Lee, The Guardian
Stati Uniti 2022, 151’. In sala
Polonia / Italia 2022, 86’. In sala
Eo è il nome di un asinello sardo dal manto grigio e lo sguardo perso. Lo conosciamo come animale da circo, compagno di un bellissimo funambolo, l’unico essere umano che lo ama e lo protegge. Trasportato a destra e a sinistra, Eo vive una serie di disavventure che lo portano da un padrone all’altro e da una forma di sfruttamento all’altra. Mettendo il linguaggio in secondo piano, Skolimowski fa appello alle emozioni dello spettatore. Così il film avanza lanciandoci, quasi di sfuggita, il ritratto al vetriolo di una società brutale. Questo surrogato di umanità si riflette nell’occhio dell’asinello, che contraddice da solo l’antropocentrismo del cinema.
Mathieu Macheret, Le MondeEo
Belgio/Francia/Paesi Bassi 105’. In sala
Al giovane regista belga Lukas Dhont piacciono i titoli corti: così dopo Girl (2018) ecco Close, che racconta il rapporto tra Léo e Rémi. All’inizio Dhont è attento a documentare il periodo travagliato della preadolescenza. Però si annoia presto, e trovando forse troppo scarno il tema del desiderio che s’insinua nel cuore del rapporto di amicizia, fa un brusco capovolgimento del copione lasciando Léo tutto solo. Da quel momento in poi, è come se il titolo cambiasse significato: non l’esplorazione della vicinanza dei due amici, ma una scelta di regia abbastanza limitata.
Laura Tuillier, Libération
Francia/Canada 2022, 125’. In sala
Sébastien Marnier costruisce un piccolo thriller familiare attorno a una famiglia disfunzionale. Le ricche scenografie fanno da cornice a confronti acidi e divertenti sullo sfondo della lotta di classe. Ogni rivelazione colpisce nel segno. Risate, angoscia e paura (Dominique Blanc è davvero inquietante) si susseguono in un film molto godibile.
Caroline Vié, 20 minutes
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