Il nuovo disco dello statunitense Lil Yachty si apre con il brano The black seminole, e si capisce subito che il rapper guida la sua barchetta in mezzo a un oceano caleidoscopico di nostalgia degli anni sessanta. Immaginate i Jefferson Airplane cresciuti con una dieta a base di Naruto o i Creedence Clearwater Revival strafatti di lean. Inoltre, un brano di sei minuti di un artista trap è una cosa inaudita, ma Yachty domina lo spazio che si è creato un po’ come Jimi Hendrix faceva con la Stratocaster. Stranamente, la sua voce si adatta perfettamente a riff sfocati e batterie rallentate alla Pink Floyd. La successiva The ride continua sulla stessa scia ma è meno epica: è più una ballata pop sciropposa simile ai Tame Impala. Non sarebbe una sorpresa se fosse stato Kevin Parker a produrre questi brani. Altrove, come in Drive me crazy!, il riferimento principale è Marvin Gaye, prima di un break che potrebbe essere dei Grand Funk Railroad. Poi arriva I’ve officially lost vision!!!!, un altro brano eclettico che saccheggia tanto John Lennon quanto Alicia Keys. Let’s start here sicuramente non piacerà a tutti, ma era dai tempi di Speeding bullet to heaven, l’omaggio di Kid Cudi ai Nirvana, che un rapper non s’impegnava tanto nella contaminazione con il rock. Se qualcuno doveva fare qualcosa di così inaspettato, quello era Lil Yachty. Aspettatevi una serie d’imitatori, d’ora in poi.
Tom Johnson,Beats Per MinuteLil Yachty
Il debutto della coppia composta dal chitarrista dei Blur Graham Coxon e Rose Elinor Dougall, ex cantante delle Pipettes, è una curiosa raccolta di contrasti. Su tutti c’è quello tra le loro voci: quella di Dougall è forte, levigata, profonda e spesso con un impeccabile accento britannico, mentre Coxon è nasale, tremolante e vulnerabile. Liscio e ruvido si strofinano di continuo anche negli strumenti: chitarre irrequiete contro ottoni vellutati e archi che si librano in alto. Un contrasto è anche all’interno dello stesso Coxon, considerato come un personaggio spigoloso, un bastian contrario che si è allontanato dai Blur quando la band ha cominciato ad andare troppo in profondità nella sua esplorazione della cultura pop e che qui, invece, scrive cose come “Trovare il sogno giusto, tentare la sorte per sempre”. Gli Waeve si completano anche come duo: basta sentire la cacofonia a più strati di Drowning , che ci lascia sopraffatti. Cinematografico nelle intenzioni, spesso seducente negli arrangiamenti, The Waeve è una gemma singolare.
Bella Martin, DIY
Queste due interpretazioni luminose, energiche e raffinate sono una novità importante nella ricchissima discografia di questi lavori, che sembrano avere solo due cose in comune: la tonalità di re maggiore e la possibilità di essere eseguiti in una prospettiva da camera, che è quel che succede qui. Beneficiando della complicità di un direttore d’orchestra che è anche lui violinista, Vilde Frang offre una versione del concerto di Beethoven affascinante per audacia e intensità. La sua scelta è di non privilegiare l’esaltazione della grande linea del pezzo, come molte imprescindibili esecuzioni del passato (Menuhin con Furtwängler, Oistrakh con Cluytens), ma la sua brillantezza o la sua solennità. Il violino di Frang ha colori di volta in volta selvatici, dorati, incisivi o diafani, e le sue sfumature intense o sottilmente vibranti creano un arco che illumina il discorso dell’orchestra, malgrado la sua sonorità tenue e l’apparente inconsistenza della sua proiezione. La strategia sonora che i musicisti scelgono per il concerto di Stravinskij, apparentemente neoclassico e sostanzialmente originale, è radicalmente diversa. Qui lo spazio in cui si muovono è il timbro, chiave di un lavoro in cui il materiale tematico, decisamente semplice, conta meno dell’incessante dialogo tra il solista e l’orchestra.
Patrick Szersnovicz, Diapason
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