Cultura Suoni
This stupid world
Yo La Tengo (Cheryl Dunn)

Per godere appieno del fascino del nuovo album degli Yo La Tengo conviene tornare un attimo indietro, al We have amnesia sometimes, del 2020, che suonava come una cartolina di un vecchio amico che non sentivi da un po’. Quel lavoro consisteva in cinque casuali e bellissime improvvisazioni: un’istantanea dal momento peggiore della pandemia, in bilico tra apatia e terrore. Durante la loro invidiabile carriera gli Yo La Tengo hanno sempre fatto quel che si sentivano, senza pensare agli sbocchi commerciali. In quest’ultimo disco ci distolgono dal torpore di We have amnesia sometimes e ci regalano alcuni dei brani migliori della loro storia ma con l’urgenza e l’attenzione di chi ha bisogno di dirti qualcosa subito. Con Sinatra drive breakdown attaccano subito con quel genere di pezzi rock che galvanizzano annunciando una rovina imminente. Ma poi c’è anche la chitarra scabrosa di Ira Kaplan che per sette minuti rivolta da sopra a sotto una bella melodia finché non resta solo metallo arrugginito. Aleggiano una distruzione irreparabile e una morte inevitabile ma nonostante questo l’album emana anche una piacevole leggerezza, risultato di un gruppo con trent’anni di storia alle spalle. La tristezza è più facile da affrontare se hai degli amici, sembrano dirci in Aselestine. This stupid world cattura non solo l’oscurità che ormai ci travolge ogni giorno ma anche l’impulso a restare svegli, ad andare avanti. “Questo stupido mondo mi sta uccidendo. Questo stupido mondo è tutto quello che abbiamo”: un mantra per tirarsi su, che gli Yo La Tengo trasmettono al mondo dal loro studio di Hoboken.
Grayson Haver Currin, Pitchfork

Raven
Kelela (Justin French)

Non sono hit infarcite d’idee effimere quelle che presenta la cantautrice di Washington Kelela nel suo terzo album, ma la quintessenza del suono etereo di un rnb irrimediabilmente rivolto al futuro. La copertina del disco mostra una foto in bianco e nero, molto malinconica, che immortala il volto di una donna in meditazione, immersa in acqua. Si è persa nei suoi pensieri o sta per annegare? Non lo sappiamo, ma questa immagine riassume bene la musica di Kelela: immersiva, malinconica ma a tratti infuocata, ostile a qualsiasi forma di classificazione. Raven attinge a varie correnti (grime, 2step, elettronica) e l’unica cosa che tiene insieme tutti questi stili è la voce celestiale della cantante. La bellezza dei quindici brani dell’album, il loro potere di seduzione, il piacere che procurano sono dovuti proprio alla loro capacità di moltiplicare le suggestioni. Raven fa venire voglia di dondolarsi languidamente ma anche di crollare sul letto, di baciare la persona amata ma anche di perdersi tra albe nebbiose. Kelela è l’amica perfetta in questi tempi difficili.
Maxime Delcourt,
Les Inrockuptibles

Heiner Goebbels: A house of call

Il cuore della poetica di Heiner Goebbels è nell’eterogeneità delle sue fonti musicali e testuali. Gli ascoltatori avrebbero bisogno di un navigatore prima di tuffarsi in un oceano dove s’incontrano Roland Barthes e Heiner Müller, Samuel Beckett e Joseph von Eichendorff, Pierre Boulez e Komitas. Vale la pena di ricordare il credo del compositore tedesco: “Io posso lavorare con la musica rock, la musica africana o la musica classica. I materiali cambiano, ma il metodo di lavoro resta il mio”. In lavori come A house of call, sottotitolato “collezione fonografica del mio quaderno immaginario”, l’impronta dell’autore è sempre riconoscibile. La partitura crea uno spazio in cui si sovrappongono voci registrate dei notiziari o materiale etnografco. Iniettandole in un nuovo contesto, Goebbels ne prolunga il potenziale rivoluzionario con il trattamento musicale. Un disco non può restituire la sottile interazione tra suoni registrati e orchestra, ma la sua carica emotiva risplende grazie alla direzione di Vimbayi Kaziboni, che ne inasprisce i punti nevralgici, e un Ensemble Modern esaltato. È un capolavoro del nostro secolo.
Jérémie Bigoire, Diapason

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1499 - 17 febbraio 2023
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