Ogni crisi è anche una crisi di narrazione. Questo vale per il caos climatico come per qualsiasi altra cosa. Siamo circondati da storie che c’impediscono di vedere le possibilità di cambiamento, di crederci e di fare qualcosa perché si realizzi. Alcune di queste storie sono abitudini mentali, altre sono propaganda industriale. A volte la situazione cambia, ma le storie no, e le persone le seguono ancora, come vecchie mappe che le conducono in vicoli ciechi.
Dobbiamo lasciarci alle spalle l’epoca dei combustibili fossili, in modo rapido e deciso. La sostanza che alimenta le nostre macchine non cambierà finché non cambieremo quella che anima le nostre idee. L’attivista adrienne maree brown ha scritto che nell’azione sul clima c’è un po’ di fantascienza: “Stiamo modellando il futuro che desideriamo e che non abbiamo ancora sperimentato. Sono convinta che stiamo combattendo una battaglia dell’immaginazione”.
Per fare ciò che c’impone la crisi climatica dobbiamo trovare storie di un futuro vivibile, storie di forza popolare, storie che motivino le persone a fare quel che serve per creare il mondo di cui abbiamo bisogno. Forse dobbiamo anche diventare critici e ascoltatori migliori, più attenti a quel che crediamo e a chi lo racconta, perché le storie possono dare potere. Ma anche toglierlo.
Cambiare il nostro rapporto con il mondo fisico – mettere fine a un’epoca di consumo sfrenato da parte di pochi, che si ripercuote su molti – significa cambiare il modo in cui concepiamo praticamente tutto: ricchezza, potere, gioia, tempo, spazio, natura, valore, cosa rende buona una vita, cosa è importante. Come scrive Mary Heglar, una giornalista che si occupa di clima, non è l’innovazione a mancarci. “Abbiamo un sacco d’idee per i pannelli solari e le microreti. Ma ci manca un quadro di come questi elementi si uniscono per costruire un nuovo mondo. Per troppo tempo la lotta per il clima è rimasta in mano solo a scienziati ed esperti di politica. Se da un lato ci servono le loro competenze, dall’altro abbiamo bisogno di molto di più. Quando faccio un’indagine sul campo, mi sembra chiaro che abbiamo un disperato bisogno di più artisti”.
La crisi climatica, le azioni che possiamo intraprendere e il tipo di mondo che possiamo creare dipendono dalle storie che raccontiamo e dalle storie che ascoltiamo. Il cambiamento climatico è una storia che nessuno ha voluto ascoltare quando, più di trent’anni fa, è stata discussa per la prima volta. Fino a una decina d’anni fa si pensava che fosse una cosa che succedeva molto lentamente e sarebbe diventata un problema concreto dopo molto tempo. Si faceva spesso riferimento al “futuro dei nostri nipoti”. Era un problema difficile da capire: mondiale, incrementale, atmosferico, invisibile, con molte cause e manifestazioni, le cui soluzioni erano a loro volta sparse e molteplici. Il fatto che le voci del movimento per il clima siano finalmente riuscite a far sì che la stragrande maggioranza delle persone capisca il problema, e che molti se ne preoccupino con passione, è forse la loro vittoria più grande. Perché è conquistando l’immaginazione popolare che si cambiano le regole del gioco e i suoi esiti possibili. Ma è un processo lungo, lento e faticoso, e le idee sbagliate sono ancora numerose.
Molti non sanno che abbiamo praticamente vinto la battaglia per rendere le persone consapevoli e preoccupate. L’anno scorso il Los Angeles Times ha pubblicato un editoriale in cui sosteneva che alla maggior parte degli statunitensi non interessa l’emergenza climatica. Una volta era così, ma non lo è più. Un sondaggio del Pew research del 2020 ha concluso che due terzi degli statunitensi vogliono una maggiore azione del governo sul clima. Nell’estate 2022 la rivista scientifica Nature ha pubblicato uno studio secondo cui la maggior parte degli statunitensi è convinta che solo una minoranza (fra il 37 e il 43 per cento) sia favorevole all’azione contro la crisi climatica, quando in realtà lo è una netta maggioranza (tra il 66 e l’80 per cento). Questo divario tra il sostegno percepito e quello effettivo mina la nostra fiducia. Abbiamo bisogno di storie migliori. E a volte migliori significa più aggiornate.
Il negazionismo climatico puro e semplice – la vecchia storia che il cambiamento climatico non esiste – è stato reso in gran parte obsoleto dalle catastrofi provocate dal clima in tutto il mondo e dal buon lavoro di attivisti e giornalisti che si occupano di ambiente. Ma altre storie c’impediscono ancora di vedere le cose con chiarezza. Per esempio il greenwashing, cioè l’insieme di strategie messe in atto dalle aziende produttrici di combustibili fossili e altre per convincerci che sono dalla parte dell’ambiente, quando invece continuano la loro redditizia opera di distruzione dilagante. È più difficile riconoscere un falso amico che un nemico onesto, e le loro false soluzioni, le tattiche per ritardare gli interventi e le vuote promesse possono confondere i non addetti ai lavori. Per fortuna, oggi una nuova organizzazione, Clean creatives, fa pressione sulle agenzie pubblicitarie e di pubbliche relazioni perché smettano di fare il lavoro sporco per quel settore industriale.
Ma mancano ancora storie che ci diano un contesto più ampio. Vedo, per esempio, persone che criticano l’estrazione mineraria, soprattutto di litio e cobalto, che sarà una parte inevitabile della produzione delle energie rinnovabili – turbine, batterie, pannelli solari, macchinari elettrici –, apparentemente ignare di quanto sia più vasta la portata dell’estrazione di combustibili fossili. Se siete preoccupati per l’estrazione nelle terre dei popoli nativi, per l’impatto locale o per le condizioni di lavoro, sappiate che le più grandi operazioni minerarie mai intraprese riguardano il petrolio, il gas e il carbone, e le affamate macchine che devono costantemente bruciarli.
L’estrazione di materiale che sarà bruciato crea l’incessante ciclo di consumo su cui l’industria dei combustibili fossili si è favolosamente arricchita. Crea caos climatico, distruzione e contaminazione in ogni fase del processo. A livello mondiale, bruciare combustibili fossili uccide quasi nove milioni di persone all’anno, un numero di morti superiore a quello di qualsiasi guerra recente. Ma questa cifra è in gran parte invisibile, perché mancano storie avvincenti che ce la raccontino.
Tutte le attività estrattive devono essere condotte nel rispetto dei territori e delle persone che ci abitano, ma le conseguenze dell’estrazione per le energie rinnovabili devono essere valutate rispetto a quelle molto più devastanti dell’estrazione e dell’uso di combustibili fossili. E la ricerca di materiali più disponibili per le batterie e con effetti meno devastanti del litio e del cobalto è in corso, con alcuni risultati che sembrano promettenti.
Le storie di sconfitte premature sono fin troppo comuni. Alla manifestazione per il clima del 2014 a New York, negli Stati Uniti, a cui parteciparono quattrocentomila persone, un gruppo marciò dietro un enorme striscione che diceva “abbiamo le soluzioni”. Era vero, anche se molti credono che non sia così. Abbiamo le soluzioni energetiche solari ed eoliche di cui abbiamo bisogno: dobbiamo solo costruirle e mettere in pratica la transizione, in fretta. Puntare sullo stoccaggio geologico del carbonio come se fosse una soluzione efficace è come ignorare le scialuppe di salvataggio che abbiamo a portata di mano, nella speranza che ne arrivino di nuove: quando la nave sta affondando, agire rapidamente è fondamentale.
M’imbatto spesso in una retorica che inquadra le possibilità esistenti in termini assoluti: se non possiamo ottenere tutto, perderemo tutto. Ci sono moltissime narrazioni intrise di sventura che raccontano di come la civiltà, l’umanità, perfino la vita stessa, siano destinate a estinguersi. Questo pensiero apocalittico è dovuto a un altro fallimento narrativo: l’incapacità d’immaginare un mondo diverso da quello attuale.
Le persone prive di senso della storia immaginano il mondo come statico. Partono dal presupposto che se l’ordine attuale sta fallendo, allora il sistema sta crollando e non c’è alternativa. Un’immaginazione storica permette invece di capire che il cambiamento è incessante. Basta guardare al passato per vedere che il nostro mondo era profondamente diverso mezzo secolo fa e incredibilmente diverso un secolo fa. Il Regno Unito, per esempio, fino agli anni sessanta contava quasi interamente sul carbone. Se allora ci avessero detto che avrebbe dovuto rinunciarci, molti avrebbero immaginato un collasso completo del suo sistema energetico, non una sua trasformazione. Ancora nel 2008, osserva l’organizzazione Carbon brief, “quattro quinti dell’elettricità del Regno Unito provenivano da combustibili fossili”. Da allora il Regno Unito ha reso più sostenibile il suo insieme di fonti energetiche più velocemente di qualsiasi altra grande economia mondiale. L’energia prodotta con il carbone è praticamente scomparsa e anche l’uso del gas è diminuito di un quarto. Oggi il paese ottiene più della metà della sua elettricità da fonti a bassa emissione di anidride carbonica, come l’energia solare, eolica e nucleare. La Scozia produce già quasi tutta l’elettricità di cui ha bisogno da fonti rinnovabili.
Sento spesso affermare con disinvoltura che il nostro mondo è condannato, ma nessuno scienziato che si rispetti si lascia andare a simili affermazioni. Sono quasi tutti profondamente preoccupati, ma tutt’altro che disperati. Ci sono già dei danni gravi, ma il nostro modo di agire o non agire determina quanti altri ce ne saranno, e chi ne sarà vittima. Ed è ancora possibile riparare qualcosa. Gli sforzi sufficienti a ridurre la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera potrebbero abbassare le temperature e invertire alcuni aspetti del collasso climatico.
Una storia sul clima di cui abbiamo urgente bisogno è quella che smaschera i veri responsabili della crisi. È stato di moda dire che siamo tutti responsabili, ma l’Oxfam riferisce che, negli ultimi 25 anni, l’impatto delle emissioni di anidride carbonica dell’1 per cento più ricco della popolazione è stato il doppio di quello del 50 per cento più povero. Le responsabilità per gli effetti che subiamo e la capacità di cambiare le cose è distribuita in modo molto disuguale.
Quando diciamo che “siamo tutti responsabili”, tralasciamo il fatto che la maggioranza della popolazione del mondo non deve fare grandi cambiamenti, mentre è necessario che una minoranza ne faccia di enormi. Questo ci ricorda anche che l’idea che dobbiamo rinunciare ai nostri lussi e vivere in modo più semplice non riguarda, in realtà, gli esseri umani al di fuori di quello che potremmo definire il mondo sovrasviluppato. Ciò che è vero a Beverly Hills non è vero per la maggioranza del mondo, dal Bangladesh alla Bolivia.
Quando si parla di chi sta danneggiando il clima, spesso si sottolinea l’importanza dei contributi individuali. Al settore dei combustibili fossili piace la retorica della responsabilità personale, perché diventa un modo per spingere all’azione le persone invece delle aziende. Il settore ha così promosso il concetto dell’impronta climatica per metterci sotto pressione, e ha funzionato. Di solito, se chiedo alle persone cosa stanno facendo per affrontare la crisi climatica, la maggior parte parla di quel che non consuma o non fa. Ma tutte queste azioni non saranno mai all’altezza della velocità e della portata del cambiamento necessario a modificare il sistema.
Per farlo uno degli obiettivi è rendere irrilevanti le virtù individuali. Così come oggi non dobbiamo più scegliere se comprare un’auto con le cinture di sicurezza o un posto nella carrozza per non fumatori sul treno, nel prossimo futuro a un certo punto non dovremo più scegliere se viaggiare su un’auto o un autobus elettrici, oppure vivere o lavorare in edifici senza gas. Il passaggio all’energia elettrica sarà frutto dell’azione collettiva, che si concretizzerà in politiche e regolamenti.
L’anno scorso l’ambientalista Bill McKibben ha scritto un’analisi molto efficace, in cui sottolinea che se avete denaro in una delle banche che finanziano i combustibili fossili – in particolare, negli Stati Uniti, Wells Fargo, Chase, Citi e Bank of America – i vostri depositi e fondi pensione potrebbero avere un’impronta climatica molto più grande della vostra impronta personale. L’effetto della vostra dieta e del modo in cui andate al lavoro potrebbe impallidire rispetto a quello dei vostri soldi in banca. Una vegana in bicicletta può comunque contribuire alla crisi climatica se i risparmi della sua vita sono in una banca che presta il suo denaro al settore dei combustibili fossili.
L’impatto individuale, tralasciando gli ultraricchi, conta soprattutto a livello aggregato. Ed è ragionando così che possiamo cambiare le cose. Il 21 marzo McKibben, il suo nuovo gruppo sul clima Third act (del cui comitato consultivo faccio parte) e decine di altre organizzazioni coinvolgeranno persone con soldi o carte di credito nelle principali banche statunitensi, per cercare di costringere questi istituti a smettere di finanziare i combustibili fossili. Il nostro potere più grande non è nel nostro ruolo di consumatori, ma in quello di cittadini, grazie al quale possiamo unirci per cambiare collettivamente il modo in cui funziona il nostro mondo.
Diverse campagne si sono concentrate sulla finanza fossile, con successi significativi alle spalle e molti altri da ottenere in futuro. Negli ultimi anni il movimento per il clima è diventato molto più sofisticato e preciso per raggiungere i suoi obiettivi. Sta facendo un ottimo lavoro; ha solo bisogno di un numero sufficiente di persone e risorse per diventare più potente dello status quo.
L’anno scorso ho portato tre attivisti che in passato facevano parte del Sunrise movement, un gruppo di ragazze e ragazzi che si batteva per affrontare la crisi climatica, a vedere al cinema Terminator 2 – Il giorno del giudizio, del 1991. Il film era fantastico, come lo ricordavo. Anche perché la protagonista Linda Hamilton, che interpreta una giovane madre combattiva, sceglie come motto: “Non c’è destino se non quello che creiamo”. Nella trama il futuro torna a intromettersi nel presente attraverso le tecnologie fantascientifiche dei viaggi nel tempo e dei robot guerrieri, i terminator appunto. Vediamo come le azioni nel presente plasmano il futuro attraverso feroci battaglie su quello che sarà il futuro. Questo, ovviamente, è altrettanto vero nella vita reale. Non ci sono terminator e altri viaggiatori nel tempo a dirci quali sono le conseguenze delle nostre azioni, ma queste esistono comunque. Vietando l’insetticida ddt, molte specie di uccelli non si estingueranno. Bandendo i clorofluorocarburi, il buco nell’ozono smetterà di allargarsi.
Da altri punti di vista Terminator 2 è meno utile come lente attraverso cui osservare la crisi climatica. Questo perché rientra nelle convenzioni del cinema – e dei fumetti, della narrativa, delle graphic novel e di troppi racconti giornalistici – secondo cui il mondo può essere salvato solo da individui eccezionali, spesso solitari, in grado d’infliggere e sopportare una violenza estrema. Linda Hamilton e il coprotagonista Arnold Schwarzenegger sparano, colpiscono, schiacciano, calpestano e combattono tutto ciò che gli viene lanciato contro, e la loro abilità è questa, insieme a un po’ di battute taglienti.
A parte l’umorismo, tutto questo ha poco a che fare con il modo in cui la maggior parte delle volte il mondo viene cambiato per davvero. Le abilità dei supereroi del mondo reale sono la solidarietà, la strategia, la pazienza, la perseveranza, la lungimiranza e la capacità di generare speranza nelle altre persone. I soccorritori di cui abbiamo bisogno agiscono soprattutto in modo collettivo, non individualmente: movimenti, alleanze, campagne, società civile. Al loro interno può esserci qualcuno dotato di capacità straordinarie per motivare gli altri. Ma anche il più grande direttore d’orchestra del mondo ha bisogno di un gruppo di musicisti. Una persona sola non può fare molto; un movimento può rovesciare un regime. Purtroppo ci mancano storie in cui sono le azioni collettive o la paziente determinazione degli attivisti a cambiare il mondo.
Un altro messaggio che ci arriva dai film e dai libri di narrativa è l’aspettativa di una soluzione unica dei nostri problemi: una vittoria improvvisa, una celebrazione, e i problemi sono finiti. La crisi climatica non rientra facilmente in questo schema. Smettere di estrarre e bruciare combustibili fossili è fondamentale, ma non esiste una sola via d’uscita. Anche la protezione delle torbiere, delle foreste e delle praterie – tutti ecosistemi che sequestrano carbonio – è importante. Così come la trasformazione di materiali ad alto impatto come il cemento o una migliore progettazione degli edifici, dei trasporti e delle città. Oppure occuparsi di conservazione del suolo, agricoltura, produzione e consumo alimentare. Ci sono pietre miliari e obiettivi importanti, ma il classico finale hollywoodiano – tagliare un traguardo che conclude la storia – non descrive la realtà in cui viviamo.
Il cambiamento spesso funziona più come una staffetta, con nuovi protagonisti che ripartono da dove si è fermato chi li ha preceduti. Nel 2019 una consigliera comunale di Berkeley, in California, ha proposto di vietare la realizzazione di impianti a gas fossili nelle nuove costruzioni, e la sua richiesta è stata approvata all’unanimità dal consiglio comunale. L’impegno di questa piccola città per la costruzione di nuovi edifici completamente elettrici potrebbe sembrare insignificante, ma più di cinquanta altri comuni californiani ne hanno seguito l’esempio, così come la città di New York. Lo stato di New York non è riuscito ad approvare una misura simile, ma quello di Washington sì, e l’idea che le nuove costruzioni non debbano usare il gas si è diffusa a livello internazionale.
È conquistando l’immaginazione popolare che si cambiano le regole del gioco e i suoi esiti possibili. Ma è un processo lungo, lento e faticoso, e le idee sbagliate sono ancora molte
Queste staffette sono da tempo il modo in cui funzionano le campagne per i diritti umani: una buona protesta o un atto legislativo possono introdurre nuove idee che poi si fanno strada nel mondo. Anche le campagne fallite possono riuscire ad aprire la strada a futuri cambiamenti. Il green new deal non è stato approvato dal senato degli Stati Uniti, ma è diventato un modello per la legislazione sul clima dell’amministrazione Biden e ha spostato l’attenzione su ciò che è possibile fare. Ha aperto la strada all’Inflation reduction act, la più grande legge sul clima che gli Stati Uniti abbiano mai approvato. Chi si oppone alle azioni per l’ambiente spesso sostiene che queste eliminino posti di lavoro; il green new deal ha fatto molto per cambiare questa narrazione, presentando le misure per il clima come fonte di occupazione.
Riconoscere la realtà del dissesto climatico significa riconoscere l’interconnessione di tutte le cose. Questa interconnessione comporta degli obblighi: rispettare la natura, ideare leggi nazionali e trattati internazionali che proteggano quel che è necessario, limitare la libertà dell’individuo in nome del benessere della collettività. Si tratta, ovviamente, di una visione del mondo che contrasta totalmente con il fondamentalismo del libero mercato e del pensiero libertario. Perfino i fatti sul clima accertati dalla scienza sono ideologicamente offensivi per chi sostiene una libertà individuale senza responsabilità e senza obblighi imposti da trattati e regolamenti.
Responsabilità e obbligo sono parole sgradite nella cultura tradizionale. Forse ci dovranno essere altre storie che descrivono questo processo in termini di reciprocità e relazione: un processo nel quale noi restituiamo qualcosa, in segno di gratitudine e rispetto per tutto ciò che la Terra fa per noi. Anche senza arrivare a tanto, possiamo riconoscere il nostro interesse personale nel mantenere il sistema da cui dipende la vita.
Se le notizie sono il resoconto quotidiano di ciò che è appena successo, abbiamo bisogno di un modo per allontanarci dai singoli eventi e capire come succedono le cose in un contesto più grande. Se si raccontano solo storie a breve termine, tutto diventa un po’ privo di significato. Martin Luther King ha detto: “L’arco dell’universo morale è lungo, ma si piega verso la giustizia”. Negli ultimi anni abbiamo visto l’arco piegarsi in molte direzioni, ma serve comunque del tempo perché lo faccia anche solo un po’. Per vedere un cambiamento di qualsiasi tipo, compreso quello climatico, servono punti di riferimento o la memoria di com’erano le cose in passato.
L’attivista per il clima e poeta del Pacifico meridionale Julian Aguon ha recentemente dichiarato che i popoli indigeni “hanno una capacità unica di resistere alla disperazione grazie al legame con la memoria collettiva, e potrebbero essere la nostra migliore speranza di costruire un nuovo mondo radicato nella reciprocità del rispetto: per la Terra e per gli altri”. Questa enfasi sulla memoria collettiva suggerisce che un forte senso del passato rende possibile un forte senso del futuro, e che ricordare le difficoltà e le trasformazioni ci prepara ad affrontarle di nuovo.
Una delle cose che mi rincuora è il lungo arco di cambiamento delle tecnologie rinnovabili. Le notizie sulle rinnovabili sono per lo più a breve termine: resoconti dell’ultimo calo dei prezzi o della diffusione dell’energia solare ed eolica nell’ultimo anno o due. Se si allarga l’orizzonte temporale, ci si accorge che questi cambiamenti hanno prodotto un sorprendente crollo dei prezzi e un aumento dell’efficienza e dell’utilizzo a livello mondiale, oltre che innovazioni nei materiali e nell’immagazzinamento dell’energia.
Vent’anni fa non avevamo modi concreti per lasciarci alle spalle i combustibili fossili. Oggi sì. E le soluzioni continuano a migliorare. Nel 2021 l’organizzazione Carbon tracker ha pubblicato un rapporto in cui dimostrava che la tecnologia già a disposizione potrebbe produrre una quantità di elettricità dall’energia solare ed eolica cento volte superiore alla domanda mondiale. Il rapporto si concludeva con l’affermazione che “le barriere tecniche ed economiche sono state superate e l’unico ostacolo al cambiamento è di natura politica”. Alla fine dello scorso millennio queste barriere sembravano insormontabili. Il cambiamento è rivoluzionario, ma la rivoluzione è stata troppo lenta per risultare visibile ai più.
Tendiamo a pensare che le utopie siano irrealizzabili, ma queste parole provengono da un serio e misurato centro studi che si occupa di politica climatica ed energetica. Il rapporto ha suscitato poco interesse nella maggioranza della popolazione. Anche se la rivoluzione energetica è in crescita, non c’è ancora stato un momento di svolta. Eppure il quadro è incoraggiante e perfino sorprendente.
Ma nonostante questo, le persone trovano fin troppo credibili le narrazioni deprimenti, che siano fondate sui fatti o no. Siamo ancora inondati da storie negative, oltre che false, sul clima e sul futuro. Le profezie possono autoavverarsi: se insistiamo sul fatto che non possiamo vincere, finiamo per negare la possibilità di vittoria e metterci contro le persone che cercano di ottenerla.
C’è un’altra narrazione che persiste: quella secondo cui dobbiamo rinunciare all’abbondanza ed entrare in un’epoca di austerità. Ma dipende tutto da come la raccontiamo. Descrivere la nostra epoca come un’epoca di abbondanza, significa concentrarsi solo sull’accumulazione delle cose, ignorando come sono distribuite. Viviamo in realtà in un’epoca di estrema ricchezza per alcuni e di disperazione per molti altri. Ma c’è un altro modo di considerare la ricchezza e l’abbondanza: come speranza per il futuro, sicurezza e fiducia pubblica, benessere emotivo, amore, amicizia, forza dei legami sociali, lavori e vite cariche di senso, uguaglianza, giustizia e inclusione.
Ci dicevano che le energie rinnovabili erano molto costose: la cosa rientrava nella retorica dell’austerità, cioè una scusa per non fare la transizione. Ma i miglioramenti nella progettazione e le economie di scala sono tra i fattori che le rendono la forma più economica di elettricità quasi ovunque sulla Terra. Non c’è motivo di pensare che abbiamo lasciato alle spalle le innovazioni nella progettazione e i miglioramenti economici, io credo che siano soprattutto davanti a noi.
L’ingegnere ed esperto di energia Saul Griffith ha recentemente scritto: “La maggior parte delle persone crede che un futuro di energia pulita costringerà tutti ad accontentarsi di meno cose, ma in realtà significa che potremo avere cose migliori”. Prima, l’idea più comune era che non potevamo permetterci di fare ciò che l’emergenza climatica richiedeva. Ora prevale l’idea che non farlo sarebbe non solo ecologicamente devastante, ma anche più costoso. Le fonti rinnovabili stanno per diventare più economiche dei combustibili fossili. In molti posti lo sono già.
Molte persone tendono a misurare l’azione per il clima in termini di grandi eventi di cronaca nazionale o internazionale, ma il cambiamento che conta davvero avviene spesso a livello locale. Un’università rinuncia a investire sui combustibili fossili; uno stato fissa una data per interrompere la vendita di nuove auto a benzina; una città approva un provvedimento che impone di costruire edifici in cui si usa solo energia elettrica; s’inaugura il cantiere di un grande impianto solare; uno stato o un paese stabilisce un nuovo primato per la percentuale di energia eolica nel proprio mix energetico; si fermano le attività di un gasdotto, di un rigassificatore o di un impianto di trivellazione; si comincia a proteggere una foresta o una torbiera che sequestrano emissioni di anidride carbonica; una centrale a carbone chiude.
Questo non cancella tutte le cattive notizie sul continuo collasso dei sistemi naturali e sul suo impatto sulle vite umane e un futuro vivibile, però le contestualizza come una crisi a cui possiamo rispondere se decidiamo di farlo. Stanno succedendo tante cose, meravigliose e terribili, e le storie sono troppo numerose perché riusciamo ad assimilarle tutte. Ma il quadro generale in cui ci arrivano è importante, così come le capacità critiche per riconoscerle, sceglierle e cambiarle.
La crisi climatica è un problema che non ha una soluzione sola, ma molte, così come non esiste un unico salvatore, ma molti protagonisti della lotta. Come ha detto nel 2019 l’attivista climatica svedese Greta Thunberg dobbiamo adottare un “pensiero cattedrale”, spiegando che “dobbiamo gettare le fondamenta, anche se magari non sappiamo esattamente come costruire il tetto”. ◆ ff
Rebecca Solnit è una scrittrice e saggista statunitense. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Le rose di Orwell (Ponte alle Grazie 2022). Questo articolo è la trascrizione di un intervento dell’autrice alla Princeton university, negli Stati Uniti, nel novembre 2022. È uscito sul quotidiano britannico The Guardian con il titolo “If you win the popular imagination, you change the game”: why we need new stories on climate.
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Questo articolo è uscito sul numero 1499 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati