Quando Sara, una delle protagoniste di Yerba buena, era una bambina, lei e la sua famiglia facevano un gioco. Prendevano un foglio bianco e ognuno a turno cominciava a disegnare, costruendo lentamente la scena. All’improvviso, ecco un mondo intero, familiare ma strano, e al suo interno una storia. È così che Nina LaCour intreccia il suo romanzo. Capitolo dopo capitolo, l’autrice passa da una prospettiva all’altra per creare una tranquilla storia d’amore di due giovani donne della California meridionale che stanno capendo cosa significa costruire una casa e scegliere di invitare qualcuno a condividerla. Il titolo del libro deriva dalla flora nativa della California, e anche le storie dei due personaggi cominciano lì: Sara in un boschetto di sequoie, mentre vive il suo primo amore con la sua migliore amica tra gli antichi tronchi; ed Émilie nel giardino di una scuola, che cerca rifugio da una vita domestica tumultuosa tra gli steli di verbena e menta. Il libro poi procede a balzi, attraversando l’adolescenza di Sara ed Émilie pochi mesi alla volta e gettando le basi del trauma giovanile che le plasmerà per sempre. Nelle prime pagine incontriamo morte, dipendenza, abusi sessuali e una litania di altre miserie. Ma una volta che le strade delle due donne, ormai ventenni, s’incrociano in un ristorante di Los Angeles la storia trova il suo ritmo. L’intesa tra loro è immediata. Il libro è una festa sensoriale, ricca di dettagli vividi.
Jennifer Harlan,The New York Times
Ecco un libro che non si lascia acciuffare facilmente. Si situa nel territorio del mistero, dell’infanzia e della poesia. Evoca mondi, immagini, personaggi ed emozioni, e leggerlo è un’avventura singolare, ma la storia che racconta a volte sfugge. A proposito, chi lo scrive? L’autrice o la scrittrice che ritrae? Il filo d’Arianna di questo testo dai molteplici percorsi è una “strana personcina di circa dodici anni”, Milly Vodović, una ragazza bellicosa e coraggiosa. Di origine bosniaca, nel 2008 vive nel sud degli Stati Uniti, un paese in cui, poco dopo l’11 settembre, i musulmani sono immediatamente assimilati ai terroristi. Milly, che non ha mai visto la Bosnia e si sente rifiutata nel luogo in cui vive, ha costruito il suo territorio incantato, vicino alla natura, parla con i fiori e gli animali e crede nei mostri nascosti nella notte. Intriso di rimandi ad autrici del Sud, da Flannery O’Connor a Carson McCullers, il libro flirta con il fantastico, realtà e immaginazione sono intimamente mescolate. La morte è onnipresente e la forma della tragedia s’impone. Il romanzo, tuttavia, grazie alla ricchezza del suo linguaggio, è di una bellezza luminosa.
Michel Abescat, Télérama
Il saluto sbagliato è narrato in prima persona da un uomo che si lascia trasportare dal saluto hitleriano in situazioni di stress. Il protagonista, Erck Dessauer, è l’antagonista dello scrittore ebreo Hans Ulrich Barsilay. Ma il bene e il male non si dispongono in modo così semplice. Biller colloca i suoi personaggi nella zona grigia dell’etica. L’affascinante personaggio di Barsilay prende forma solo lentamente. Erck scopre che il suo concorrente nel suo acclamato libro di memorie Il mio popolo ha inventato una commozione cerebrale, che lo avrebbe letteralmente paralizzato per settimane durante una visita alle camere a gas di Auschwitz. All’inizio, Erck reprime la sua intuizione. Poi fa delle ricerche dettagliate su Google e scopre che nulla è confermato dai fatti. Erck Dessauer smaschera Barsilay, che diventa immediatamente persona non grata e scompare all’estero come un cane bastonato. Ma Maxim Biller è un ballerino di pas de deux, l’avversario del suo eroe dimostra decenza proprio nella disgrazia e si astiene dal tirare fuori l’episodio del saluto hitleriano. Erck, però, ora vive con il timore che Barsilay possa scrivere un libro intitolato Il saluto di Hitler, contro il quale non gli sarebbe consentito fare causa perché così ammetterebbe la propria identità con il presunto nazista descritto nel testo. A questo punto, il lettore si può chiedere se non sia proprio Il saluto sbagliato il libro di cui il personaggio ha tanta paura. Ambientato nel 2012, il romanzo è intelligente, quasi subdolamente contorto.
Ingeborg Harms, Die Zeit
Come scrittore che ha documentato le montagne russe finanziarie e sociali dell’Irlanda dalla fine degli anni ottanta, è naturale che Roddy Doyle sia tra i primi a registrare gli effetti della pandemia, del lockdown e del lutto. I dieci racconti di La vita senza i figli lo fanno tutti. Ci sono immagini che pochi anni fa sarebbero sembrate insensate, ma che ora sono tristemente familiari: una frustrante chiamata su Zoom con una moglie molto amata su un tablet appoggiato goffamente sul suo letto d’ospedale; mascherine chirurgiche dismesse sui marciapiedi bagnati; il “nuovo linguaggio” delle statistiche alla radio; la cerniera di un sacco per cadaveri. In questo inedito e strano mondo, “la distanza sociale è una frase che tutti capiscono. È come la fluidità di genere e lo sviluppo sostenibile”. Ma ciò che sembra più familiare è il senso di assenza che riempie ogni storia. Nel racconto che dà il titolo al libro, Alan cammina per Newcastle lottando con la sensazione di non essere più necessario. Doyle tocca argomenti come il licenziamento, l’abuso, la depressione, il lutto e l’invecchiamento con la sua consueta tenerezza e con umorismo.
Katy Guest, The Guardian
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