Gli Wednesday vengono da Asheville, nel North Carolina, e negli ultimi anni sono diventati una band importante del panorama indie grazie a una riuscitissima fusione di generi: southern rock country, blues, shoegaze, noise rock e power pop. Sono influenze evidenti in Rat saw god, ma non sono la cosa più importante dell’album. La sua forza è nella disarmante e dolorosa sincerità della cantante Karly Hartzman. Con il suo microscopio Hartzman osserva la degenerazione della famiglia tradizionale, ma non è esageratamente critica: scrive le sue storie per i ragazzi che la ascoltano e sognano solo di scappare da quello che gli sembra un inferno. È vero, la vita di provincia non è per tutti: qualcuno vuole solo andarsene ma non ci riesce mai, altri sacrificano tutto – amici, famiglia, sicurezza – solo per non sentirsi sempre fermi. Poi ci sono gli altri, che rimangono anche loro, che gli piaccia o no. L’album è dedicato a tutte queste persone e i ricordi di Hartzman sulla sua “vita di tutti i giorni” sono pieni di affetto. Rat saw god è tanto tragedia quanto commedia. Le immagini suscitano risate imbarazzate ma anche solidarietà. Non importa di cosa parlino le canzoni, sono tutte vive come poche altre. Che raccontino di sesso in un suv o di un ragazzo ebreo che mette incinta la figlia del rabbino, le loro riflessioni su come sopravvivere alla provincia non vi lasceranno più.
Tim Sentz, Beats Per Minute
Fermatevi in un punto a caso del quarto disco di James Holden e penserete che questa musica punti sempre a una catarsi, con una grande melodia, ritmi che si fondono in un unico corpo danzante e la folla che si abbandona completamente. Nei suoi precedenti lavori c’erano tanti momenti così perché Holden era un giovane dj concentrato su inni trance e techno. Di recente ha raccontato che l’idea dietro questo album era di ricreare la sensazione, provata da adolescente, di ascoltare le prime trasmissioni pirata di musica dance britannica: la colonna sonora di una scena rave che quando il dj di Exeter aveva l’età per diventare un professionista si era già esaurita. Più che il ricordo nostalgico di un paradiso perduto, Imagine parla della gioia e della libertà che secondo lui provava chi partecipava a quei rave. Ogni singolo suono è chiaro , distinto e accogliente e in generale Holden si riavvicina al mondo del club, da cui si era allontanato per interessarsi al free jazz e a ritmi più liberi. Tuttavia anche qui resta questa sensibilità verso un mondo più organico: ogni ritmo si sviluppa a una velocità individuale, per riflettere la frammentarietà delle linee temporali in natura. Possiamo riassumere le relazioni all’interno di questo disco pensando alle cascate e ai tramonti: è la traiettoria ad assorbirci, non dei punti specifici. La mancanza di soluzioni può fare storcere il naso a qualcuno ma quando ci sono, raramente, commuovono. Per godere di tutto ciò serve dell’immaginazione. Solo così potrete scoprire un mondo magico, come faceva James Holden alla radio, nella sua cameretta.
Andy Crush, Pitchfork
Più di un secolo di musica a programma scritta da donne. Nel suo poema sinfonico del 1883 Andromède, Augusta Holmès racconta il salvataggio della “vergine dal cuore puro” con armonie wagneriane. Mel Bonis dà alle sue Femmes de légendes (1909) un clima diverso: Ophélie, Cléopatre e Salomé sono pezzi brevi, cesellati con cura e con una sfumatura delicatamente impressionista, spesso orientalizzante. Il dittico del 1918 di Lili Boulanger è uno scherzo alla Debussy nel quale si alternano episodi leggeri, una tristezza misteriosa e una pagina raveliana aspramente lugubre. Con Betsy Jolas l’ascoltatore fa un salto di un secolo: in questa Little summer suite (2015) la trasparenza del suono e della materia, e la straordinaria economia di mezzi creano dodici minuti quintessenziali. David Reiland coglie con arte consumata la varietà delle scritture e trova dappertutto il giusto equilibrio.
Anne Ibos-Augé, Diapason
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