Ogni anno a Lampedusa tengo un seminario di un mese per gli studenti della Northeastern university di Boston e del Made program di Siracusa. Proviamo a capire la condizione del migrante, quella dell’isola e lo stato culturale del Mediterraneo, dove sta avvenendo un passaggio decisivo della contemporaneità. Per spiegare il problema della quantità di corpi umani che ogni anno il mare inghiotte sulle rotte dei trafficanti, uso spesso la metafora dei corpi animali: dopo una certa soglia – lo diceva anche Tiziano Terzani nei suoi reportage di guerra – smettiamo di osservare la qualità dei soggetti e ci limitiamo a contare l’accatastamento degli ex viventi che abbiamo davanti. La sfida del Mediterraneo è cruciale: migliaia di persone affondano in un mare d’indifferenza proprio come miliardi di animali ogni anno sono macellati nel disinteresse di tutti. A volte sulla riva arriva la scarpetta di un bambino finito chissà dove, ed è come il servizio del telegiornale quando ci ricorda che l’agnello che mangiamo a Pasqua era un cucciolo indifeso e non un pezzo di carne cresciuto su un albero. Lampedusa è un dispositivo di realtà, la quantità torna qualità e spesso i corpi riacquistano un nome: sono soggetti ingoiati dallo scorrere di una storia ingiusta. I migranti, dice qualcuno, sono “trattati come animali”. Si potrebbe rispondere che se smettessimo di trattare gli animali da animali risolveremmo il problema alla radice: nessun vivente cosciente merita l’oblio del naufragio. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1507 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati