Dopo la vittoria di Donald Trump alle elezioni di novembre negli Stati Uniti, la working class, la classe lavoratrice, è stata di continuo invocata e raramente definita. Invocata come una sorta di sigillo di autenticità: la gente che conta davvero, il sale della terra, quelli che i politici dovrebbero corteggiare. Chi rientra di preciso in questa categoria? Ho chiesto in giro, e le definizioni non solo erano varie, ma anche incerte, spesso si scontravano e si confondevano l’una nell’altra.
Più una cosa è nebulosa più può voler dire qualsiasi cosa utile a chi parla o scrive. Mi è venuto in mente _Alice attraverso lo specchio _di Lewis Carroll: “‘Quando io uso una parola’, disse Humpty Dumpty in tono alquanto sprezzante, ‘questa significa esattamente quello che voglio io. Né più né meno’.
Quando una parola significa qualsiasi cosa, diventa un’arma politica che ognuno può usare per la sua causa
‘Bisogna vedere’, disse Alice, ‘se lei può dare tanti significati diversi alle parole’”.
Quando una parola significa qualsiasi cosa, diventa un’arma politica che ognuno può usare per la propria causa, e non riesce più a fare quello che credo le parole dovrebbero fare, cioè descrivere il mondo per rendere le cose più chiare e coerenti.
Dunque cos’è la classe lavoratrice? Può essere definita dai livelli di reddito o di istruzione, se alcune persone che lavorano nel commercio guadagnano strabilianti stipendi annuali e alcuni impieghi da ufficio tengono le persone invischiate nella povertà? È il tipo di lavoro o lo status di dipendente, quando la persona che lavora per un’impresa di costruzioni può diventare lei stessa un’imprenditrice?
Un marxista mi ha detto che il punto è se si possiedono o meno i mezzi di produzione, ma questo ipotetico imprenditore, così come molte persone che lavorano nel settore dell’edilizia, possiede un camioncino e molti attrezzi e forse anche un’officina, esattamente come tanti agricoltori possiedono o ereditano la terra.
Secondo qualcun altro, significa essere pagati secondo le ore di lavoro anziché ricevere un salario, ma avvocati e consulenti legali in realtà presentano parcelle (generosissime) su base oraria. E un numero crescente di persone lavora nella gig economy (l’economia dei lavori temporanei) o con contratti occasionali di altro genere considerati come lavori autonomi o subappalti, non come assunzione di un dipendente.
Secondo altri si tratta di avere redditi non da lavoro, ma diversi sindacalisti o dipendenti di grandi aziende possiedono azioni in un fondo pensione investito nel mercato azionario.
Un altro criterio fa riferimento ai livelli d’istruzione, anche se a parecchie persone il periodo trascorso all’università ha fruttato poco più di un debito da ripagare con un lavoro nel settore della cura e dei servizi o con un lavoro manuale.
L’idea che tutte le persone della classe lavoratrice sono uomini bianchi è diventata troppo facilmente una giustificazione per politiche che strizzano l’occhio ai pregiudizi e ai privilegi
In California le università pubbliche vantano molti first generation students (studenti di prima generazione), ma in base alle istituzioni federali si tratta di persone i cui genitori non hanno mai frequentato l’università, mentre per il sistema dell’università della California il termine definisce chiunque abbia genitori non laureati. Il sistema della California state university (Csu) ha invece delle definizioni oscillanti: “Secondo uno scenario, il 31 per cento degli studenti della Csu sono considerati di prima generazione. Secondo un altro, la percentuale sale al 52 per cento”.
La cosa che emerge con chiarezza sugli studenti di prima generazione è che alcune persone cresciute in famiglie operaie diventano professioniste in lavori da ufficio e dunque sono in bilico tra due mondi, con un’identità che a volte è in conflitto con il loro status.
Molti di noi hanno svolto impieghi poco qualificati prima di diventare professionisti. A vent’anni mi sono mantenuta facendo la commessa, la lavapiatti, l’elaboratrice di dati e la cameriera. La mobilità economica verso l’alto è centrale nel sogno americano e nell’attirare nuovi immigrati; la mobilità verso il basso, la schiavitù causata dai debiti e l’indigenza sono stati al centro dell’incubo americano creato dall’economia d’ispirazione reaganiana e da altre forze che hanno generato una super-élite e una sottoclasse di disperati.
Una cosa terribilmente chiara dal 2016 è che con l’espressione classe lavoratrice alcuni commentatori si riferiscono in realtà agli uomini bianchi e immaginano quel gruppo in termini nostalgici: gente con in testa un casco protettivo e operai, o aitanti statunitensi delle zone rurali, e questo nonostante gran parte della popolazione a basso reddito non sia né bianca né maschile né rurale. Sono gli addetti alle pulizie o le impiegate nei saloni di bellezza o ancora le cameriere negli alberghi, sono lavoratori occasionali, addetti alle consegne e operatrici sociosanitarie a domicilio.
Non sto dicendo che la classe lavoratrice non esiste, ma i confini e le definizioni sono confuse, e questo quadro di riferimento viene troppo spesso evocato per altri scopi politici.
L’idea che tutte le persone della classe lavoratrice sono uomini bianchi è diventata troppo facilmente una giustificazione per politiche che strizzano l’occhio ai pregiudizi e ai privilegi dei maschi bianchi, poiché sono il segmento demografico che tende a collocarsi più a destra.
Messa così, spesso il sottotesto sembra essere: basta parlare dei diritti delle donne e delle persone non bianche. Nel frattempo, il 92 per cento delle donne nere, molte delle quali rientrano nella maggior parte di queste definizioni di working class, ha votato per la candidata democratica Kamala Harris. Questo ci ricorda che parlare di classe senza parlare di genere e di razza significa appiattire un terreno piuttosto complesso (ma lo stesso vale naturalmente se si parla di genere o di razza senza gli altri due elementi).
Kamala Harris ha parlato per lo più di middle class (classe media), una categoria con cui molti s’identificano a prescindere dal fatto che rientrino o meno nei criteri di appartenenza alla classe lavoratrice. Non credo che Donald Trump abbia mai usato l’espressione working class ma ha assecondato il razzismo bianco, la misoginia e la transfobia, aspetti in grado di spezzare la solidarietà e la percezione di un terreno comune, compreso quello economico.
In fin dei conti, la cosa chiara è che alle elezioni di novembre il Partito democratico, quello considerato elitario, non è stato quello che ha candidato un miliardario ripescato grazie alle macchinazioni dell’uomo più ricco del mondo, Elon Musk, con cui condivide un programma di sgravi fiscali per i ricchi e un ulteriore impoverimento per i più poveri.
Élite è un’altra parola nebulosa, che pretende in un certo senso che i diritti umani siano un prodotto di lusso come una borsa di marca o che la maggioranza di chi vive negli Stati Uniti – se contiamo insieme donne, nativi e persone di colore, persone queer e trans, immigrati – sia invece un gruppo che difende interessi particolari. In questo schema il 26 per cento circa della popolazione, composto da uomini bianchi, è immaginato come la maggioranza, forse perché un tempo possedevano e gestivano praticamente qualsiasi cosa.
Le lamentele degli uomini bianchi sono una potente forza trasversale rispetto alla classe, come dimostra l’abituale piagnisteo dei miliardari. Queste persone inoltre possiedono fin troppi mezzi per la produzione d’informazioni, da Twitter a Facebook, dal Los Angeles Times al Washington Post.
Questi e altri strumenti hanno incoraggiato le persone a percepirsi in base a criteri che non comprendono la classe o le condizioni economiche, ma in base a categorie identitarie che alimentano il risentimento.
Il tutto condito dal fatto che moltissime persone hanno ricevuto una quantità enorme d’informazioni false sulle cause dei loro problemi e sulle possibili soluzioni. Questo le ha spinte in molti casi a votare contro i propri interessi e contro quelli di chi sta nella loro stessa situazione economica.
Oggi la mancanza di chiarezza su cosa sia la classe lavoratrice è solo una parte del problema dell’informazione cattiva o manipolata. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1594 di Internazionale, a pagina 37. Compra questo numero | Abbonati