A novembre avevano osato fare qualcosa che probabilmente passerà alla storia nell’industria del k-pop, se non altro perché mai nessuna band si era rivoltata in maniera così radicale contro la propria etichetta discografica. Le NewJeans, band di cinque ragazze sulla cresta dell’onda, paragonabili per fama ai colleghi Bts (i primi ad arrivare in cima alle classifiche statunitensi, proiettando sulla scena internazionale quello che qualcuno considera un sottogenere del pop, ma che è effettivamente un mondo a parte), lo scorso autunno avevano annunciato l’addio all’Ador, l’agenzia d’intrattenimento che le aveva ideate, create, allevate e lanciate nel firmamento delle star e delle classifiche globali.

Nel pop coreano – potenza di fuoco del soft power di Seoul nata nei primi anni duemila per volere del governo come reazione alla crisi economica asiatica (per chi volesse approfondire, questa è la copertina che abbiamo dedicato tempo fa al fenomeno) – idol e case discografiche sono uniti da un rapporto ombelicale regolato da contratti che limitano la libertà delle giovani star, anche nella vita privata, in un modo inquietante.

Uno dei motivi è che a queste ragazze e ragazzi si chiede di essere specchiati, perfetti. La minima ombra è punita innanzitutto dai fan, che nell’industria svolgono un ruolo fondamentale e che, aizzati da mezzi d’informazione senza scrupoli, esercitano potere di vita e di morte – in alcuni casi letteralmente – sui loro idoli. L’industria dell’intrattenimento sudcoreana in generale finisce puntualmente sotto accusa ogni volta che uno dei suoi “figli” decide di farla finita, schiacciato da pressioni insostenibili e travolto dai troll online. È successo anche recentemente a Kim Sae-ron, attrice ventiquattrenne finita nel tritacarne mediatico e trovata morta nella sua casa di Seoul il 16 febbraio.

Lo scorso autunno, tre mesi dopo che la Hybe, l’azienda madre dell’Ador e gigante del settore che ha creato i Bts, ha licenziato la loro produttrice Min Hee-jin, le NewJeans hanno prima chiesto ufficialmente il suo reintegro e poi, di fronte al rifiuto della major, hanno annunciato il loro addio all’agenzia. Lo strappo si è consumato con una serie di accuse di maltrattamenti, abusi sul lavoro e il tentativo di minare le carriere delle ragazze, dato che, orfane di Min, le NewJeans vedono il loro futuro in bilico. Accuse respinte dall’Ador, che si è rivolta a un tribunale per impedire alle componenti della band di svolgere alcuna attività fino allo scadere del contratto che le lega all’azienda, nel 2029. Il 22 marzo la richiesta dell’Ador è stata accolta, spiazzandole. Nel frattempo, infatti, il gruppo aveva cambiato nome in NJZ e aveva annunciato l’uscita imminente di un nuovo singolo. Ma, alla luce della decisione del tribunale, le giovani idol hanno annunciato che si prenderanno una pausa per poi, probabilmente, impugnare la sentenza.

Questa vicenda ha portato a galla la realtà che sta sotto la patina scintillante di un’industria milionaria che ha conquistato il mondo, ma che già in passato era stata criticata per i vincoli imposti alle sue creature. Ma che effetto avrà la storia delle NewJeans sull’industria stessa? L’ho chiesto a Paola Laforgia, esperta di k-pop e autrice del saggio Fattore K (Add 2024). “Non è la prima disputa tra un gruppo k-pop e la sua agenzia, ce ne sono stati parecchi in passato, ma credo che stavolta la vicenda abbia avuto tanta risonanza per due ragioni: primo perché le NewJeans, che hanno debuttato nel 2022, nel giro di pochissimo sono diventate un gruppo di successo spropositato, come non si vedeva da tempo nel k-pop, oltre i confini della Corea del Sud e non solo tra chi ascolta k-pop. E poi perché la Hybe è un’agenzia importante, nata dal successo dei Bts”, spiega Laforgia. “Di questo caso si parla negli Stati Uniti come in Corea, perché il k-pop ha ormai una risonanza globale”.

Ci si chiede se questa vicenda aiuterà a migliorare i rapporti futuri tra etichette e idol. “Temo piuttosto il contrario”, dice Laforgia, “il risultato potrebbe essere che in futuro i contratti saranno ancora più vincolanti. Ma la vicenda è importante perché le NewJeans – che secondo me sono la cosa migliore capitata al k-pop negli ultimi anni, un fenomeno che ha segnato il settore – la stanno gestendo in modo nuovo, inedito, stanno prendendo posizione, motivo per cui sono state criticate: una band di giovani ragazze si mette contro una grossa agenzia cercando di far valere i propri diritti. In realtà la vicenda è molto complicata, ogni giorno emergono dettagli nuovi e non è facile capire chi ha ragione. Ma il fatto che in una storia di puro business (in cui in gioco ci sono diritti e royalties su dischi, concerti e merchandising) queste ragazze si ribellino al fatto di essere trattate come mero prodotto è la vera differenza rispetto al passato”.

Secondo il critico musicale Shaad D’Souza, questa vicenda non è altro che uno dei segnali che la stella del k-pop non brilla più e che l’industria è in crisi. L’errore fatale è stato inseguire, da un certo punto in poi, il pubblico internazionale a scapito di quello coreano, con sonorità più standardizzate, preferendo l’inglese e perdendo le caratteristiche che lo rendevano un genere a sé.

“È costruito per essere esportato”, commenta con D’Souza la host di un podcast sul k-pop che usa uno pseudonimo per evitare le rappresaglie dell’esercito di fan del genere, “cerca di essere tutto per tutti, con il risultato che non è niente per nessuno”.

Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.

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