Nel suo prezioso libro Sorte dell’Europa (Adelphi 1977), l’unico di argomento politico, Alberto Savinio illustra un fenomeno alla base, secondo lui, di gran parte delle catastrofi che si sono abbattute nei secoli sull’occidente: il “pompierismo”, noto anche come art pompier. In origine questo termine indicava lo stile di artisti attivi nella Francia del secondo impero (tra il 1850 e il 1870), che producevano opere caratterizzate dall’ostentazione di forme enfatiche e da un piatto realismo accademico.
Savinio lo applica alla politica e spiega che rientrano nella categoria dei “pompieri” i leader capaci di “vivere solo con i muscoli e con la pancia”, persone prive di “senso originale della vita”, che non pensano “per criterio proprio, ma secondo schemi consacrati e prestabiliti nell’opinione dei più”. Incapaci di opere originali, i “pompieri” agiscono cercando di riportare in vita modelli del passato. Adolf Hitler, per esempio, è stato uno dei più grandi pompieri mai apparsi sulla Terra, perché pretendeva di “rifare a modo suo l’Impero romano”. Persone di questo tipo, conclude Savinio, “sono destinate a portare a morte tutto quello che toccano”.
Nella nostra epoca rientra nella categoria dei pompieri senza dubbio Vladimir Putin, con la sua idea di riportare in vita i fasti dell’Unione Sovietica senza esitare a “portare a morte” l’Ucraina e distruggere l’Unione europea. Ma gli può fare compagnia anche il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, con i suoi progetti di tornare alla grande epoca dell’industria manifatturiera negli Stati Uniti e assicurare al paese il dominio sul mondo, quella che lui chiama la nuova età dell’oro.
Va in questa direzione l’impressionante serie di dazi presentata dalla Casa Bianca il 2 aprile, una vera e propria offensiva commerciale globale sotto forma di pesanti tariffe doganali che colpiscono soprattutto l’Asia e l’Unione europea. Questa svolta, senza precedenti dagli anni trenta del novecento, prevede dazi aggiuntivi del 10 per cento su tutti i prodotti importati negli Stati Uniti, con aumenti più pesanti per un gruppo di paesi considerato particolarmente ostile dal punto di vista commerciale.
Il dazio cinese è del 34 per cento, che si aggiunge al 20 per cento già introdotto dall’amministrazione Trump. Gli altri dazi “ad hoc” sono stati fissati al 20 per cento per l’Unione europea, al 24 per cento per il Giappone, al 26 per cento per l’India e al 46 per cento per il Vietnam. La tariffa universale del 10 per cento entrerà in vigore il 5 aprile e quelle mirate il 9 aprile. Nella giornata del 3 aprile i mercati finanziari hanno registrato subito forti perdite, mentre alleati e rivali tradizionali degli Stati Uniti hanno minacciato misure di ritorsione.
Nel suo ruolo di pompiere della nostra epoca Trump ha dimostrato di agire “senza criterio”, come conferma innanzitutto il modo dissennato con cui ha calcolato i dazi. La Casa Bianca ha diviso il valore del deficit commerciale nei confronti di ogni singolo paese per quello delle importazioni e ha moltiplicato il risultato per cento. In sostanza nella singolare logica di Trump i dazi devono corrispondere al peso del deficit commerciale sul totale dei beni importati. Washington, tuttavia, ha deciso di concedere “uno sconto” del 50 per cento: in base ai calcoli statunitensi, per esempio, all’Unione europea sarebbe dovuto toccare un dazio del 39 per cento, ma applicando lo sconto si è scesi al 20 per cento.
Il dazio universale del 10 per cento ha effetti altrettanto paradossali. Innanzitutto è applicato anche a paesi con cui gli Stati Uniti vantano un surplus commerciale, per esempio al Regno Unito. E perfino a territori con cui non ci può essere alcuno scambio, come l’isola Heard e le isole McDonald, che si trovano nell’oceano Antartico e sono abitate solo da pinguini.
Il deficit commerciale è una vera e propria ossessione per Trump e probabilmente per buona parte degli statunitensi che lo hanno votato, convinti che il commercio globale e più in generale la globalizzazione siano l’origine di tutti i loro problemi. Una questione che il presidente repubblicano ha promesso di risolvere una volta per tutte riportando negli Stati Uniti le fabbriche e i posti di lavoro di una volta. Il problema è la visione distorta del mondo e dell’economia: per l’inquilino della Casa Bianca si tratta di un gioco “a somma zero”, in cui la ricchezza globale è un dato fisso e i vantaggi di una parte arrivano solo togliendo qualcosa agli altri; per questo pensa che l’unico modo di costringere gli altri a sottostare alla sua volontà sia la minaccia.
Fedele a questa visione, Trump è convinto che tutti sfruttino gli Stati Uniti. Nel presentare le sue misure ha detto: “Il nostro paese è stato saccheggiato e depredato da stati vicini e lontani, alleati e nemici”. Il suo obiettivo è ridurre le importazioni per favorire la rinascita della produzione manifatturiera nel paese: le tariffe dovrebbero rendere i prodotti stranieri più costosi e quindi favorire quelli locali, oltre a spingere le aziende del resto del mondo a spostare la produzione negli Stati Uniti.
Il suo disegno, però, si scontra con la realtà. Trump vuole far rivivere un mondo che non esiste più, quello del dopoguerra, quando gli Stati Uniti erano una grande potenza manifatturiera e controllavano di fatto metà del pil mondiale. Oggi devono fare i conti con altri colossi, in particolare con la Cina, ma anche con l’odiata Unione europea (di cui si augura la disintegrazione) e con l’India. Ma, soprattutto, è cambiata profondamente la struttura dell’economia statunitense: negli ultimi decenni il paese, grazie al libero commercio e alla globalizzazione, si è specializzato nei settori più produttivi e avanzati, liberandosi man mano di quelli più tradizionali e a bassa redditività e concentrandosi sulla finanza di Wall street, pronta a gestire gli enormi capitali che da tutto il mondo affluiscono negli Stati Uniti.
In sostanza gli statunitensi si sono concentrati su attività alla frontiera tecnologica, che garantiscono più guadagni e posti di lavoro ben remunerati, spostando altrove (soprattutto in Asia) la produzione di auto, scarpe e capi d’abbigliamento o l’assemblaggio di telefonini e computer. I progetti di Trump alla fine favoriranno il ritorno di attività meno ricche, che per di più non sarà facile riportare indietro, a prescindere dal successo dei dazi: soprattutto perché la creazione di impianti manifatturieri richiede conoscenze che vanno riacquisite, ha bisogno della fiducia (fattore decisamente a rischio con un politico sprezzante dello stato di diritto, inaffidabile e incompetente come Trump) di chi investe e assorbe molta manodopera, in un paese in cui il governo ha dichiarato guerra aperta agli immigrati.
In questo quadro qual è la sorte dell’Italia e dell’Europa? Il 2 aprile Trump ha mostrato di non avere alcun occhio di riguardo per il nostro paese, nonostante la presidente del consiglio Giorgia Meloni si vanti di intrattenere un rapporto privilegiato con la Casa Bianca. Lo stesso destino è toccato ad altri stati governati dai sovranisti, come l’Ungheria di Viktor Orbán. In realtà, l’Italia deve ringraziare l’Unione europea perché, se con il loro singolare metodo, gli Stati Uniti avessero dovuto calcolare un dazio solo per l’Italia, per noi ci sarebbe stata una tariffa del 31 per cento.
In ogni caso, ora un’azienda italiana che vuole vendere negli Stati Uniti, dovendo pagare di più alla dogana, può decidere di rinunciare a una parte del suo guadagno per mantenere i prezzi inalterati o far ricadere il peso delle tariffe sui consumatori statunitensi: comunque vada, avrà un costo economico da sostenere. Nel settore del vino, per esempio, si prevede un calo delle vendite pari al 16 per cento. Tutto questo ricadrà su chi lavora negli impianti italiani e sull’economia di regioni che magari oggi sostengono in massa partiti sovranisti come la Lega o Fratelli d’Italia.
La gamma di settori a rischio è ampia: il 38 per cento delle esportazioni italiane negli Stati Uniti è composto di macchinari e mezzi di trasporto, il 20 per cento di prodotti chimici e derivati e il 19 per cento di manufatti finiti. Il resto è coperto da semilavorati, bevande, prodotti alimentari. Tra i settori più colpiti c’è quello farmaceutico: il 95 per cento della produzione italiana, opera di multinazionali che hanno investito nel nostro paese, è destinato al mercato estero e in particolare a quello statunitense.
Da sola l’Italia non può reagire in modo efficace ai dazi statunitensi. È un’economia troppo piccola, ha scarsa influenza internazionale e comunque è legata ai trattati europei. La risposta può arrivare solo dall’Europa unita, che costituisce un mercato enorme e ricchissimo. In attesa di una risposta delle autorità di Bruxelles, un modo più efficace di reagire sarebbe aprire nuovi spazi per le aziende europee. Innanzitutto si potrebbe rafforzare l’integrazione economica interna, abbattendo le barriere per merci, servizi, persone e capitali; e poi bisognerebbe cercare nuovi sbocchi sui mercati globali, puntando su accordi commerciali con altre aree. C’è per esempio il Ceta, l’accordo di libero scambio con il Canada, e soprattutto l’accordo con il Mercosur, cioè con i paesi dell’America Latina.
Sono tuttavia obiettivi di medio e lungo termine. Resta da vedere cosa succederà nell’immediato, tra paesi che invitano alla moderazione e al dialogo e altri già pronti a rispondere duramente. Il clima non può certo essere rasserenato da alcuni commenti che arrivano da Washington, dove il segretario al tesoro statunitense Scott Bessent, da cinico pompiere che ragiona “solo con i muscoli e la pancia”, ha invitato i paesi colpiti dai dazi a non reagire: “Rilassatevi, incassate il colpo e aspettate di vedere come evolve la situazione. Perché se reagite, ci sarà un’escalation”.
Il nazionalismo e le ritorsioni commerciali hanno prodotto tragiche catastrofi un secolo fa. Oggi si stanno ponendo di nuovo le basi per lo sconvolgimento, in negativo, del mondo come lo conosciamo. Tanto più che il paese più potente della Terra ha deciso di affidare il proprio destino a “pompieri” accentratori e arroganti come Trump e la sua cricca. Rispetto a un secolo fa c’è una reazione dura dei mercati, ma i piani della Casa Bianca saranno fermati definitivamente solo se saranno sconfitti a livello politico.
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