Grido d’allarme, cronaca sociale, tragedia moderna, romanzo polifonico e pamphlet scottante: Il silenzio del coro attinge a tutti questi generi per trovare una sua via. E come negli altri suoi romanzi, il giovane e prolifico scrittore senegalese Mohamed Mbougar Sarr affronta un tema di attualità, in questo caso l’accoglienza dei migranti africani in un piccolo paese siciliano immaginario chiamato Altino. Partendo da questa premessa, Mbougar Sarr costruisce una narrazione ricca, complessa e molto matura, in cui si destreggia con virtuosismo tra punti di vista, stili di scrittura e toni. Ci offre un’intera galleria di personaggi spesso suggestivi, colorati e commoventi. Tra questi padre Bonianno, un cieco dal carattere forte, che ha vissuto in Senegal; Jogoy, un migrante che fa il traduttore e di cui possiamo leggere il diario; Lucia, un’operatrice umanitaria che non parla più da quando la madre si è suicidata. Non dimentichiamo l’inimitabile Giuseppe Fantini, poeta di fama che non scrive un verso da quindici anni; o il faceto e versatile Boy Thialky Hawaï, che nelle strade di Guédiawaye, alla periferia di Dakar, avrebbe esercitato, come scrive Jogoy, “tutti i mestieri del mondo”. Emozionante dall’inizio alla fine, Il silenzio del coro dà conto delle tensioni più o meno latenti tra i migranti; dell’associazione Santa Marta, che cerca di aiutarli ma che loro rimproverano di essere inefficace; e della tendenza xenofoba che si fa strada grazie a un movimento di estrema destra guidato da Maurizio Mangialepre. Politica, economia, amori nuovi o falliti, grandi questioni esistenziali e calcio: Mbougar Sarr tratta tutti questi temi con fluidità e maestria. Nonostante la serietà generale del libro, Il silenzio del coro non manca di umorismo. M. Sarr rifiuta di cedere al pessimismo o al cinismo, e il libro ci esorta a mantenere la nostra umanità, contro ogni previsione.
Mathias Turcaud, Africa Vivre
“Tutti gli scrittori attraversano una fase Thomas Bernhard, prima o poi”, ha detto Geoff Dyer. Non è difficile da individuare. Primo, assenza di paragrafi (o paragrafi molto lunghi). Secondo, la ripetizione. Infine, la rabbia che si fa commedia. Anime morte è la fase Thomas Bernhard di Sam Riviere. È un romanzo di un solo paragrafo, scritto in una prosa rabbiosa e ricorsiva, sul piccolo mondo della poesia inglese. È brillante e divertente. La scrittura è spietata, la rabbia è genuina. È satira, ma è anche un’analisi meticolosa che proviene da un luogo di disperata intimità. L’impostazione è semplice. In una versione leggermente futuristica del Regno Unito, in cui i droni punteggiano il cielo e le impronte digitali hanno sostituito le carte di credito, ma non è cambiato molto altro, il poeta Solomon Wiese è giudicato colpevole di plagio, scompare per un po’, poi è accusato di plagio una seconda volta. Nel corso di un’unica lunghissima notte, il narratore senza nome è informato dell’ultima disgrazia di Wiese, tiene una lettura di poesie, partecipa a una festa alla fine di un festival, incontra Wiese e trascorre le successive sette ore ascoltando il suo esilarante monologo sul destino del poeta. L’effetto cumulativo è esilarante. Passo dopo passo, Riviere estende il suo raggio d’azione satirico ben oltre la mostruosa scena della poesia. Il romanzo diventa un verdetto di colpevolezza sui suoi compatrioti degno di Bernhard, appunto. E non è solo una fase.
Toby Litt, The Guardian
Non sottovalutare mai il potere dell’amicizia. Questo è uno degli insegnamenti che si possono trarre dal bellissimo ritratto che Michael Frank fa della saggia e affascinante Stella Levi, una delle ultime sopravvissute all’Olocausto della scomparsa comunità sefardita del quartiere di Juderia, sull’isola greca di Rodi. Frank ha incontrato per caso Levi nel 2015, ed è rimasto incantato da questa “donna che avrei considerato una Shahrazād, una testimone, una prestigiatrice, una viaggiatrice del tempo che mi invitava a viaggiare con lei”. Era abbagliato dalla sua memoria acuta, dalla sua “grazia e grinta” e dalla sua notevole capacità di creare amicizie che durano tutta la vita. Cento volte sabato ricrea il mondo della giovinezza di Stella. I suoi sogni furono distrutti nel 1938, con le leggi razziali fasciste. Inoltre, il libro evoca un mondo perduto che merita di non essere dimenticato.
Heller McAlpin, The Wall Street Journal
Il romanzo di Patrícia Melo si svolge in un Brasile in cui il machismo culturale sfocia nella violenza sistemica contro le donne. È narrato in prima persona da una giovane avvocata di São Paulo aggredita dal fidanzato durante una festa di fine anno. A partire dalla sua esperienza personale, la protagonista comincia un viaggio che la porterà a trasferirsi ad Acri per lavorare con le donne vittime di violenza. Da questa occasione nasce un viaggio personale: per capire se stessa e il suo autoinganno sul fidanzato dovrà risalire alla sua infanzia. Melo struttura il romanzo in tre assi discorsivi che si alternano nei vari capitoli. Il primo con una dizione realistica e violenta in cui si sviluppa una trama da romanzo poliziesco. Il secondo, usando un linguaggio giornalistico, racconta storie di reali vittime di femminicidio. Il terzo si rifà alla tradizione del realismo magico latinoamericano. In essi il linguaggio cessa di essere duro e si avvicina alla prosa poetica. Melo offre al lettore un romanzo difficile da digerire per il tema, ma che acquista forza e bellezza nell’equilibrio del linguaggio.
Dani Langer, Revista Sepé
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