Il nuovo disco dei Blur, il nono della loro carriera, si appoggia con forza alla ballata che dà il titolo all’album. E stavolta il gruppo guidato da Damon Albarn ha un approccio più gentile, tirando fuori un album con ritornelli orecchiabili e strofe più ambigue. C’è un’atmosfera alt-pop anni settanta simile ai lavori solisti di Lou Reed o John Cale, specialmente negli arrangiamenti degli archi di The ballad, nei versi di Avalon e nella melodia di Russian strings. La familiarità con lo stile classico dei Blur si ritrova in The heights, con il suo intreccio tra distorsioni fragorose e chitarre acustiche che sottolineano la voce vulnerabile di Albarn. Anche se stavolta è meno rumoroso, il chitarrista Graham Coxon lascia comunque la sua impronta sul disco. Nel singolo St. Charles square, per esempio, le sue sei corde sembrano pescare da Scary monsters (and super creeps) di David Bowie, regalando un’anomalia croccante e ad alta energia. Il sentimento dominante è la malinconia, l’introspezione come resa dei conti, una riflessione sulle perdite personali lungo la strada. L’apice di tutto questo è The narcissist, che s’interroga sull’emozione che si prova a esibirsi sul palco e, in definitiva, è un’ode a quello che continua a far tornare insieme la band britannica a distanza di anni. The ballad of Darren è uno slancio esistenzialista ma soffre il peso dei cambiamenti. È la fotografia di dove si trovano i Blur in questo momento.
Amanda Farah, The Quietus
Il cantautore non binario di New York Joanna Sternberg ha prodotto una travolgente raccolta di brani folk sinceri e teneri sul tema della guarigione nel suo secondo album, pubblicato dall’etichetta statunitense Fat Possum Records. I’ve got me si apre con il brano che dà il titolo al disco, costruito su una chitarra acustica e la voce riconoscibile di Sternberg. Questa canzone fluttua attraverso le ferite del passato ed esorta gli ascoltatori a continuare a impegnarsi, a rimanere responsabili e a ricordare di confidare nell’amore per se stessi. Circa a metà dell’album troviamo Mountains high, una gemma rilassante, il racconto di una scalata senza fine inaugurato da un energico pianoforte. L’ultimo brano, The human magnet song, è il migliore di tutti. Questa canzone mette in mostra il talento musicale ad ampio raggio di Sternberg, che qui ha suonato tutti gli strumenti, e parla di relazioni tossiche e di quanto possono essere intense. Nel complesso, I’ve got me è il perfetto balsamo per le ferite di cui avevo bisogno. Se vi capita di ascoltare qualcosa di simile nel vostro vicolo, non fatevelo scappare per niente al mondo.
Mel D., Loud Women
In copertina c’è la foto di un giovane, spontaneo Lorin Maazel, quello dei tre Romeo e Giulietta del 1957 con i Berliner Philharmoniker (Berlioz, Čajkovskij, Prokofev), che furono il suo debutto per la Deutsche Grammophon, quando aveva solo 27 anni. Poi sarebbero arrivati un De Falla incandescente, Schubert e Mendelssohn luminosi, un Chant du rossignol di Stravinskij e un Capriccio espagnol di Rimskij-Korsakov sfavillanti, una terza sinfonia e un’Ouverture tragica di Brahms tese e cupe. Per non parlare dell’Enfant et les sortilèges e dell’Heure espagnole di Ravel, con un’orchestra della radio francese immersa nel suo ambiente preferito. Dopo una pausa, nel 1970 ci fu una bellissima Luisa Miller (Ricciarelli, Domingo, Bruson). E nel 1985 una languida Shéhérazade. Con gli anni la direzione di Lorin Maazel si è fatta molto più pesante, con una forte passione per i contrasti espressivi e agogici che ogni tanto diventa un po’ compiaciuta. È comunque bellissimo ritrovare un Harold en Italie dai colori superbi, dei Rachmaninov dai chiaroscuri malinconici e un Concerto per orchestra di Bartók fiammeggiante. Tutte dimostrazioni del fatto che il Maazel degli anni 1970-1980 non era solo un virtuoso superficiale.
Didier Van Moere, Diapason
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