Yellowface è un thriller ma anche una satira feroce dell’editoria e di una certa sgradevole cultura di internet. Ma soprattutto, come ci ricorda Junie Hayward, l’antieroina e narratrice del romanzo, una stessa storia può essere raccontata in modi diversi. Tutto comincia in un lussuso bar di Washington DC in cui Athena Liu e la sua meno dotata e invidiosissima compagna di università Junie festeggiano il contratto che Athena ha appena firmato con Netflix. Qualche pagina dopo Athena giace morta con gli occhi strabuzzati nel suo appartamento e Junie torna a casa in stato confusionale con un manoscritto appena completato nella borsa. E così ha inizio la sua grande truffa letteraria. Hayward ripulisce L’ultimo fronte, un epico romanzo sul ruolo dei cinesi nella prima guerra mondiale scritto da Athena, e lo vende a una casa editrice con uno pseudonimo etnicamente ambiguo a una cifra esorbitante. Improvvisamente anche lei diventa una superstar. Nel raccontare la vicenda dal punto di vista totalmente autoassolutorio di Junie, Kuang mette in gioco un po’ di luoghi comuni su letteratura e autenticità. Ecco una ragazza bianca che ha letteralmente rubato – la metafora non è certo sottile ma è efficace – una storia cinese per farci dei soldi. Ma alla fine i romanzieri non sono tutti un po’ dei ladri? Se l’obiettivo di Kuang era un equilibrato dibattito sulle guerre culturali, ha un po’ esagerato con il trucco di scena della sua odiosa narratrice.
Susie Goldsbrough,The Times
Il kintsugi è una tecnica giapponese che consiste nel riparare oggetti di ceramica rotti con una colata di oro o di platino fusi. In questo modo si enfatizzano le crepe e le saldature anziché nasconderle, rendendo in qualche modo onore alla storia unica di quell’oggetto. La poeta bosniaca Senka Marić ha intitolato il suo primo romanzo Corpo kintsugi perché il suo corpo fatto a pezzi da una malattia alla fine sopravvive, segnato da cicatrici. Marić parla del cancro al seno che le fu diagnosticato nel 2014, all’età di 42 anni. Quando l’autrice si tasta un nodulo al seno è l’inizio di un’esperienza catastrofica. Tutto sembra caderle addosso: il suo corpo e la realtà stessa si riducono a frammenti di terrore e dolore tra procedure mediche alienanti. Gradualmente però ritrova le parole che aveva perso: la narratrice comincia un dialogo con se stessa grazie all’uso della seconda persona singolare che riesce a essere intima creando la distanza giusta: molto di rado leggiamo frasi che cominciano con “io”. Marić scrive al passato, poi passa al presente, facendoci ripiombare in una storia in divenire per poi aggiungere ricordi della sua infanzia e giovinezza. L’atto di ricordare diventa così una ricerca di connessioni dove la malattia aveva fatto saltare tutte le coordinate del suo io. Alla fine Marić riesce a evitare il racconto puramente individuale di una lotta solitaria premiata dalla guarigione. La sua non è la storia di un’eroina, ma una toccante testimonianza letteraria.
Carola Ebeling, Die Tageszeitung
C’è qualcosa di meraviglioso in quegli scrittori che trovano la loro vena letteraria e la seguono, romanzo dopo romanzo, senza doversi per forza reinventare ogni volta. Willy Vlautin l’ha individuata nella classe operaia dell’ovest americano, oberata dai debiti, devastata da alcolismo e depressione ma resa vitale, spesso, dalla musica, dall’amicizia e dalla connessione con la natura. Nel Cavallo facciamo la conoscenza di Al Ward, un musicista di 65 anni “magro come un chiodo, capelli grigi e occhi blu” che si nasconde in una miniera abbandonata nel deserto del Nevada con la sola compagnia delle sue canzoni e dei suoi ricordi. Una mattina gli compare davanti un cavallo malconcio e mezzo cieco e lui è costretto ad affrontare qualcosa di diverso dai suoi sogni di gloria infranti e dalle relazioni sbagliate del suo passato. Fa quello che può per aiutare l’animale, gli dà degli spaghetti e tiene lontani i coyote, sempre coltivando la speranza che a un certo punto se ne vada come era arrivato. Il cavallo è una storia triste ma anche agile e, con i suoi salti avanti e indietro nel tempo, anche molto appassionante. Questo libro è conciso e straziante come una bella canzone folk.
Killian Fox, The Observer
Il narratore occasionale del terzo romanzo dello scrittore angloindiano Sunjeev Sahota è isolato e alienato: ha 18 anni ed è dipendente dall’eroina. Il suo racconto di un’estate passata nel Punjab rurale s’intreccia alla storia in terza persona di una giovane donna del 1929 che, più avanti, scopriremo essere la sua bisnonna. Il narratore cerca di vincere la sua tossicodipendenza andando a far visita a suo zio nel Punjab prima di cominciare l’università a Londra: con sé ha solo del whisky e una pila di libri, tra cui Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, Le piccole virtù di Natalia Ginzburg e una biografia di Leonora Carrington. Ma a farla da padrone nel romanzo è la storia della sposa sedicenne Mehar, che vive con altre due ragazze nella “stanza delle mogli”. Tutte e tre sono state date in sposa a tre fratelli e sono lì in attesa che la matriarca, Mai, gli dia l’ordine di recarsi nella camera da letto dove le aspettano i rispettivi mariti. Quello che accade dopo sarà un inganno di tipo shakespeariano, anche se i dettagli vengono appena accennati. Sahota ha detto che La stanza delle mogli è ispirato alla storia della sua famiglia, ma il romanzo mantiene una sottile aria di irrealtà e di favola.
Alex Clark, The Guardian
Nei nove racconti magistrali della raccolta di Dimosthenis Papamarkos, il sangue – ghiak in arvanitico – costituisce il legame profondo che unisce gli albanesi della Locride, nel nord della Grecia. Il sangue è il prezzo che paga la coscienza e che plasma intere comunità, non solo quella arvanitica. I protagonisti, reduci dalla guerra greco-turca del 1919-1922, in Asia Minore, sono segnati da ciò che hanno vissuto, dalla sconfitta, e condizionati da quello che la collettività si aspetta da loro. Dagli eroi dell’Iliade in poi, la convivenza in guerra – elemento che lega queste storie – modella le coscienze. Impone princìpi non scritti, come pudore e rispetto. Ma questi valori, nella narrazione di Papamarkos, confondono azioni detestabili con atti d’onore: un conto è uccidere senza motivo, come fa zio Kotsos, o per follia, come Arghiris; un altro è uccidere per vendetta, come in Ti taglierò le trecce. In questo cerchio violento e maschile entrerà alla fine anche una donna, spinta a superare il proprio ruolo femminile e a trasformarsi in un essere soprannaturale. Nei racconti di Papamarkos, che riparte e modernizza la tradizione orale, la tensione è data dall’ideale del protagonista solitario. E nel caso dell’incantatore errante la narrazione orale s’impone come racconto in prima persona, diventando un piccolo diamante. Arricchita da elementi singolari e gotici, questa raccolta risulta moderna e innovativa quanto quella dei più grandi autori greci di racconti.
Tina Mandilarà, Lifo
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