Dopo sei album solisti abbiamo capito alcune cose di John Grant. Ha un fiuto degno di Madonna per la scelta dei produttori, persone che sanno esaltare il suo talento ma aggiungergli anche qualcosa in più. Poi, l’approccio diaristico ai testi, che ci fa sentire un po’ dei voyeur, crea ogni volta diverse incarnazioni. In The art of the lie il musicista statunitense è nella sua versione triste, e siccome è uno dei migliori autori contemporanei di canzoni tormentate, il risultato è ottimo. Grazie anche alla presenza di Ivor Guest, che è stato produttore per Grace Jones, e di Dave Okumu alla chitarra, questo disco è uno dei più ricchi e appaganti della sua carriera. Con riferimento all’Arte di fare affari, l’autobiografia del 1987 di Donald Trump, Grant parla più volte dell’ex presidente e dell’avanzata dell’estrema destra. Ci sono anche il funk pop (All that school for nothing) e i synth pesanti (It’s a bitch), che partono da un’idea di pop allegro e ironico ma in realtà sono brutali. Entrambi i pezzi parlano a chi critica Grant perché è troppo cupo, ma questa è la sua essenza ed è ciò che fa funzionare l’album. Reduce da una collaborazione per il progetto Creep Show con Stephen Mallinder, fondatore dei Cabaret Voltaire, Grant ribadisce il suo amore per l’elettronica industrial degli anni ottanta e il dramma familiare goticheggiante stile Soft Cell. E ci regala un altro disco bellissimo.
Chris Todd, The Line of Best Fit
Vagando nelle cupe brughiere dello Yorkshire, la compositrice, cantante e attrice britannica Keeley Forsyth ha scoperto una miniera abbandonata, una specie di stanza nascosta che la porta fuori dal mondo. È The hollow, il suo terzo album solista, che arriva due anni dopo Limbs e come quello è realizzato insieme al produttore Ross Downes. Il risultato è “più grande” (qualunque cosa significhi), ma allo stesso tempo è più diretto e immediato: è un disco migliore (e Limbs era bellissimo). Più che languido è sepolcrale, e la musica riesce a rimanere sempre minimale e controllata, anche se è piena di spazi enormi e ha una grandissima complessità armonica. Se The hollow vi piacerà o no dipende soprattutto dalla voce: Forsyth è una cantante che esiste in un universo tutto suo, e chi non riesce a seguirla ne resta fuori. Il suo vibrato profondo, duro e teatrale è un’esperienza unica, esigente, complessa, a volte davvero stupefacente. Mi chiedo se il grande pubblico vorrà puntare i riflettori su di lei, anche se fa una musica che non vuole che tutte le sue ombre siano cancellate. The hollow è un album fenomenale.
CJ Thorpe-Tracey, The Quietus
Il 30 maggio 1975 Artur Rubinstein fece la sua ultima esibizione in Polonia, a Łódź, suonando il secondo concerto di Chopin e il quinto di Beethoven. Che un pianista di 88 anni riuscisse a trovare la resistenza necessaria per due lavori così impegnativi in un’unica serata è già abbastanza impressionante. Ma è ancora più sorprendente che fosse ancora vicino al massimo delle sue possibilità. Naturalmente qua e là ci sono dei piccoli scivoloni, ma sono del tutto irrilevanti quando si ascoltano il suono splendido, la proiezione, il rubato sempre naturale e l’immediatezza comunicativa. Il concerto di Chopin è più libero e poetico che nelle quattro registrazioni di Rubinstein in studio. L’orchestra di Łódź è un po’ grezza, ma il direttore Henryk Czyż mantiene ritmi decisi e agili. Se confrontati con le versioni in studio che il pianista incise con Daniel Barenboim nello stesso anno, i movimenti esterni del concerto di Beethoven hanno uno slancio maggiore. E per il bis, Rubinstein propone la Polonaise op. 53 di Chopin, un suo celebre cavallo di battaglia. Nel complesso, questo è un bellissimo ricordo di un grande artista nei suoi ultimi momenti davanti al pubblico.
Jed Distler, ClassicsToday
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