In Viva Patrick Deville torna in Messico, paese dove ha vissuto dieci anni. Lo scrittore Malcolm Lowry e Lev Trockij occupano la scena. E con loro il turbolento Messico degli anni trenta del novecento pieno di fermento rivoluzionario. Nato nel Regno Unito, Malcolm Lowry (1909-1957) si trasferisce a Cuernavaca con la moglie Jan alla fine del 1936. Reso pazzo dall’amore e dall’alcol si mette a lavorare al suo romanzo Sotto il vulcano che, pubblicato nel 1947, diventerà un libro di culto in Europa. Altro mondo, altra generazione: vecchio comandante dell’armata rossa, espulso dall’Unione Sovietica nel 1929 e “perseguitato dall’odio congiunto di Hitler e di Stalin”, Lev Trockij (1879-1940) arriva in Messico con la moglie Natalja un anno dopo Lowry. Trockij ha 58 anni, Lowry neanche trenta. I due non s’incontreranno mai ma entrambi perdono le loro battaglie: uno contro l’assoluto della letteratura, l’altro contro l’assoluto della rivoluzione. Trockij viene assassinato nel 1940 e Lowry muore imbottito di sonniferi e di alcol nel 1957. Qualcosa rende i due uomini fratelli in un Messico terra di naufragi e di speranza. Patrick Deville riesce a trasformare questi anni messicani in una scena teatrale un po’ vaudeville e un po’ tragedia in cui i personaggi vanno e vengono. Tra i comprimari Antonin Artaud, a caccia di droga e di peyote, e André Breton, che balbetta come uno scolaretto e delude sia Trockij sia Frida Kahlo. Viva è un affresco storico di grande effetto.
Catherine Simon, Le Monde
La tradizione dei gialli di Agatha Christie e di Arthur Conan Doyle è assimilata e declinata in modo splendidamente tropicale in Il crimine del buon nazista, il nuovo libro del brasiliano Samir Machado de Machado. Un gruppo di miliardari tedeschi sorbisce minestra di tapioca a bordo di un LZ 127 Graf Zeppelin che attraversa lo spazio aereo brasiliano nel 1933. A bordo viene commesso un delitto e il romanzo ricostruisce le indagini condotte tra nazisti in volo tra Berlino e il Brasile per le ragioni più diverse: chi cerca il caldo a Rio de Janeiro, chi commercia caffè e chi sta andando a divulgare teorie eugenetiche a un congresso a São Paulo. Ciascuno dei personaggi del libro potrebbe essere l’assassino dell’uomo, ebreo, omosessuale e comunista, trovato morto in un bagno. Il linguaggio di Machado alterna sofisticazione e semplicità in un romanzo spontaneo che si legge con grande piacere. I dialoghi sono agili, punteggiati da intuizioni geniali e da assurdità naziste come “bisogna sbiancare il sangue della nazione” e “solo gli artisti di razza pura possono creare un’arte sana”. La narrazione procede in modo molto visivo, ogni personaggio è presentato attraverso una sorta di identikit: visi ovali, fronti ampie e sguardi di sfida. Sul finale il ritmo del romanzo cambia e l’atmosfera da poliziesco lascia spazio a un lungo flashback e a una prosa più amara e malinconica. È lì la chiave storica dell’intero romanzo.
Paula Sperb, Folha de S.Paulo
Un romanzo con un titolo come Rogo difficilmente avrà un lieto fine. Eppure, la strada che porta al suo finale inevitabile ci fa riflettere sulla brutalità e il conservatorismo religioso nello stato indiano del Tamil Nadu al giorno d’oggi. Un po’ come succede in Romeo e Giulietta i protagonisti commettono il peccato mortale d’innamorarsi della persona sbagliata. Kumaresan ha lasciato il suo villaggio per lavorare in un negozio di bibite a Tholur. Qui conosce Saroja che vive lì vicino con il padre e il fratello. Nonostante siano entrambi molto timidi riescono a confessarsi a vicenda i loro sentimenti. C’è solo un problema: sono di caste diverse. A Tholur, che è una città più grande, il matrimonio tra caste diverse è una possibilità, ma per Kumaresan sarebbe impossibile tornare nel suo villaggio: per l’affronto potrebbe essere avvelenato o picchiato a morte dai suoi stessi parenti. Quando comunque decide di tornare con la nuova moglie riceve un’accoglienza gelida e la coppia viene gradualmente isolata dalla società del villaggio. Kumaresan capisce, anche se non ha le parole per dirlo, che quel tipo di conservatorismo religioso serve solo a favorire gli interessi egoistici di pochi. La nota più dolente del romanzo è che i due stessi protagonisti non hanno la forza di immaginare una vita diversa lontano da lì.
Jane Wallace, Asian Review of Books
Le ballate di Narayama, originariamente pubblicato in Giappone nel 1956, è un libro che mescola generi diversi: ha la struttura di un romanzo, la brevità di un racconto e contiene una raccolta di canzoni che sono il mezzo espressivo preferito degli abitanti del piccolo villaggio incastonato tra le montagne in cui si svolge la storia. La vita laggiù è tutt’altro che facile: da quelle parti non cresce nulla, c’è poco riso e a tutti si chiede di mangiare poco. I protagonisti sono Orin, una vedova di settant’anni, e suo figlio Tatsuhei, anche lui vedovo e padre di quattro figli. Fukazawa ci racconta la loro storia e l’ultimo viaggio di Orin che parte in pellegrinaggio sul monte Narayama dove, come tutti i vecchi del suo poverissimo villaggio, andrà a morire. Sebbene sia una storia di fantasia Le ballate di Narayama s’interroga sul ruolo dei vecchi nella società, sia in Giappone sia altrove. Da questo libro sono stati tratti due film, uno nel 1958 e uno, con la regia di Shōhei Imamura, che nel 1983 vinse la Palma d’oro al festival di Cannes.
Clémence Leleu, Pen magazine
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