La prima cosa che dovete sapere del nuovo romanzo di Jenny Erpenbeck è che si piange: è un romanzo catartico e le lacrime arrivano molto presto. Kairos parla della relazione tra una giovane donna e un uomo sposato molto più vecchio di lei, e fa piangere lacrime di ogni tipo: intelligenti e stupide, di gioia, di risate e di grande confusione. Siamo a Berlino est alla fine degli anni ottanta, quando il muro sta per crollare. Katharina ha 19 anni e studia scenografia, mentre Hans è uno scrittore cinquantenne affascinante e slanciato. Katharina non vuole piangere davanti a lui, quindi quando le viene il groppo alla gola pensando alla borsa di studio che la porterà lontano, per piangere aspetta che lui esca a fare delle commissioni: “Approffitta della sua assenza e ora piange. Piange mentre passa l’aspirapolvere, mentre pulisce la cucina, piange nel bagno mentre sfrega la doccia e il lavandino. Si ferma brevemente solo quando deve portare giù le bottiglie vuote e poi ricomincia appena rientra nell’appartamento”. Se Kairos fosse solo un libro piagnucoloso la recensione si fermerebbe qui, ma la tedesca Erpenbeck, nata nel 1967, è tra le più sofisticate e potenti scrittrici in circolazione. Attaccati a ogni sua frase, come fuggitivi che si avvinghiano al telaio di un furgone, ci sono riferimenti continui alla politica tedesca, alla storia e alla memoria condivisa. E non sorprende affatto che Jenny Erpenbeck sia così spesso indicata per il premio Nobel per la letteratura.
Dwight Garner, The New York Times
Quasi duecento anni fa Mary Shelley capì che l’identità è nei ricordi. E se un essere è esistito continuerà a farlo attraverso il ricordo. Lo capì nel 1822, all’età di 25 anni, appena rimasta vedova del poeta Percy Bysshe Shelley del quale decise di conservare il cuore come reliquia. Il suo romanzo Frankenstein era uscito quattro anni prima ed era già alla terza edizione. L’immagine del cuore del poeta in un cimitero inglese sepolto accanto a sua moglie mentre il resto del suo corpo è al cimitero acattolico di Roma è la scintilla che ha fatto nascere La donna che scrisse Frankenstein, libro eccentrico e disturbante della scrittrice argentina Esther Cross, nata a Buenos Aires nel 1961. L’autrice narra diversi momenti della vita di Mary Shelley che scrisse un romanzo su un mostro costruito con pezzi di cadaveri nell’era dei “resurrezionisti”, dei furti e delle rivendite di cadaveri, delle operazioni senza anestesia e dei circhi che esibivano esseri umani deformi per il sollazzo del pubblico. Percy e Mary Shelley amavano viaggiare, erano sempre in moto, lo facevano perché erano “romantici”, scrive Esther Cross: traslocavano con mobili, carte, corrispondenza e una culla. Se si lasciavano alle spalle una tomba si portavano sempre dietro una culla: la gente intorno a loro moriva, anche i figli, ma loro continuavano a viaggiare riaffermando la loro vita. Anche il dottor Frankenstein e la sua creatura sono romantici per la stessa ragione: sono costantemente in movimento.
Clarín
In Martire!, il primo romanzo del poeta iraniano-statunitense Kaveh Akbar, un giovane uomo tormentato cerca una ragione per vivere. Cyrus, il figlio di un operaio emigrato dall’Iran nello stato dell’Indiana, ha perso la madre in un terribile incidente aereo avvenuto nel 1988 quando un missile statunitense per errore colpì un aereo di linea iraniano. Il trauma gli lascia una ferita profonda: a meno di trent’anni sta già cercando di uscire dall’alcolismo e combatte con una fragile salute mentale. Cyrus è anche un aspirante scrittore ed è ossessionato dal concetto di martirio: “Non è una cosa islamica”, spiega: “Penso ai martiri laici, ai pacifisti. Gente che ha dato la vita per una causa più grande di loro”. Per questo va a New York a intervistare un’ artista iraniana, anziana e malata, Orkideh, che mette in mostra se stessa, un po’ come Marina Abramović, al Brooklyn museum. Tra loro nasce una tenera amicizia e Cyrus comincia lentamente a prendere coscienza dei suoi problemi. La prosa è ricca, piena di elaborate similitudini. Tutta questa angoscia esistenziale sembra uscita da un disco di musica emo per adolescenti e suona un po’ forzata in un protagonista quasi trentenne. Le intenzioni dell’autore sono sincere ma non siamo molto lontani dal trauma porn, una narrazione troppo dettagliata e forse autocompiaciuta del disagio.
Houman Barekat, The Guardian
Circa settantacinque anni dopo la pubblicazione di 1984 di George Orwell, Julia di Sandra Newman non è tanto una rivisitazione quanto un’intelligente rimessa a fuoco. La sua versione della storia non è raccontata dal punto di vista del protagonista di Orwell, Winston Smith, ma da quello della sua amante, Julia. Anzitutto qui Julia ha anche un cognome, si chiama Julia Worthing e smette di essere solo la relazione sentimentale (e apolitica) del protagonista. Newman capovolge il punto di vista mettendo Winston in secondo piano e soprattutto ci racconta la vita di Julia prima che lo incontrasse. Julia è più giovane di lui, ha meno ricordi di un mondo senza il Grande Fratello e quindi si sente meno oppressa: ha una visione della realtà più concreta ed energica. 1984 di George Orwell rimane un totem della letteratura politica ma Julia offre ai lettori di oggi un modo nuovo di guardare a quel mondo letterario.
Laura Hood, The Conversation
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