Cultura Suoni
Hey what
Low (Nathan Keay)

I Low sono stati una band singolare fin dall’inizio. Erano una coppia di mormoni praticanti e facevano musica calma e lenta in piena epoca grunge. Poi, a 25 anni dall’esordio, sono diventati ancora più singolari. Nell’album Double negative, prodotto da Bj Burton, hanno spinto al massimo strumenti tipici del pop come la manipolazione digitale per applicarli al rock. Il risultato non suonava come nient’altro in giro. Anche i testi erano perfetti per rappresentare la crisi degli Stati Uniti dopo l’elezione di Donald Trump. Il successo di Double negative non è stato semplice da gestire per la band. Dopo che hai spinto tutto al limite, la domanda su dove andrai diventa urgente. Per fortuna Hey what dà la risposta giusta, perfezionando il suono del suo predecessore e lavorando ancora di più sull’armonizzazione tra le voci di Alan Sparhawk e Mimi Parker. La musica dei Low ti fa venire il capogiro, e ti fa pensare: “Da dove viene questa roba?”. Un po’ come facevano i My Bloody Valentine.

Alexis Petridis,
The Guardian

Italians do it better

Italians do it better

Madonna usò per la prima volta la frase “Italians do it better” su una maglietta nel video di Papa don’t preach. Quella canzone apre una nuova compilation di cover dell’artista che si chiama a sua volta Italians do it better, prodotta da Johnny Jewel e pubblicata dalla sua etichetta. Indovinate come si chiama? Italians do it better. Se conoscete lo stile di Jewel, sapete cosa aspettarvi: alcune delle canzoni pop più famose di sempre interpretate da sconosciuti, che immaginiamo mentre le suonano in locali decadenti, illuminati solo dai neon. Il disco è la celebrazione dell’influenza che Madonna ha avuto sull’etichetta. Ma ci sono delle debolezze. Frozen, una delle mie canzoni preferite di Madonna, è una delusione: il duo russo Love Object tradisce l’originale leggerezza trip hop con un cantato piatto e un amplificatore che si comporta come se fosse sfondato. La sottrazione dà risultati migliori, vedi Holiday di Sally Shapiro. Nelle cover migliori è come sentire dei pezzi molto familiari per la prima volta, come in Papa don’t preach, dove i sussurri evocano una vulnerabilità tutta nuova. Il punto è che Madonna è una generalista mentre Italians do it better è molto specifica: l’electro pop narcotizzato, i grandi beat e la nostalgia per le vhs. L’album poggia su un’estetica e una dinamica più ristrette della sua fonte di ispirazione. Anna Gaca, Pitchfork

I’ve been trying to tell you
Saint Etienne - Rob Baker Ashton
Saint Etienne (Rob Baker Ashton)

Per la prima volta i Saint Etienne non si sono trovati in studio insieme per registrare un album: l’anno scorso hanno fatto tutto a distanza, usando Zoom. È stato detto molto sul ritorno dei Saint Etienne ai campionamenti, ma la cosa più interessante sono le fonti che hanno scelto, tutte anni novanta: come la stupenda Raincloud dei Light­house Family su Fonteyn e Beauty on the fire di Natalie Imbruglia su Pond house o l’intro di ’Til the night becomes the day di Samantha Mumba che diventa un delicato refrain in Little K. Nel mix ci sono anche registrazioni sul campo, suoni ambientali da Hove, dal mercato coperto di Shipley e altri vecchi luoghi di villeggiatura britannici. Non ci sono accelerazioni improvvise o hit istantanee semplicemente perché il punto dell’album non è quello. È nebuloso, malinconico e c’immerge in uno stato contemplativo: quando i dettagli vengono messi a fuoco e si uniscono i puntini, si scopre che I’ve been trying to tell you è una bella aggiunta al già notevole catalogo dei Saint Etienne.

Ian Wade, MusicOmh

In Germania si avvicinano le elezioni, e Igor Levit partecipa a valanghe di discussioni: stupisce che trovi ancora il tempo per la musica. Anche perché evita sempre il repertorio più popolare, come Chopin o Rachmaninov, e preferisce lavori intellettualmente vertiginosi, come ha già dimostrato dedicando dischi a Busoni, Feldman e Rzewski. Questo ultimo album scala due vette. La prima sono i 24 preludi e fughe di Dmitrij Šostakovič, controparte del novecento al _Clavicembalo ben temperato _di Bach. La scrittura pianistica è severa, ma l’esecuzione di Levit è anche allegra, delicata, vivace e molto altro. La sorpresa è il secondo pezzo, la smisurata _Passacaglia on DSCH _del compositore scozzese Ronald Stevenson (1928-2015). È un lavoro per pianisti coraggiosi: dura quasi un’ora e mezzo e comprende centinaia di variazioni sul tema DSCH (il monogramma musicale di Šostakovič). Levit colpisce e seduce in ogni pagina, in un vero trionfo di spavalderia.

Richard Fairman, Financial Times

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1427 - 17 settembre 2021
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