Un disco che porta le impronte dei produttori Danny L Harle e A.G. Cook fa saltare di gioia ogni fan del pop sperimentale. Harle e Cook sono all’origine di alcuni dei migliori dischi di elettronica dell’ultimo decennio e stavolta hanno perfezionato l’equilibrio tra tristezza ed euforia che infesta i nebbiosi paesaggi onirici della cantante e produttrice francese Oklou. Dal 2014 l’artista, al secolo Marylou Mayniel, ha pubblicato una serie di ep per i quali ha ricevuto l’attenzione internazionale e nel 2020 ha pubblicato il suo primo mixtape completo. Choke enough è il disco di debutto di Oklou e il coronamento del suo potere stregonesco, che costruisce un mondo fluttuante e pastorale in brani come Harvest sky, una fantasia pagana in cui Mayniel invoca la “regina degli spaventapasseri”. Allo stesso modo i fiati (in Thank you for recording) e gli archi (in Want to wanna come back e Blade bird) conferiscono all’album un’atmosfera folcloristica. Antico e futuribile, sintetico e umano: queste dualità racchiudono Choke enough, un’impressionante fantasia creata da una delle artiste più visionarie del pop sperimentale contemporaneo.
April Clare Welsh, Bandcamp Daily


Sharon Van Etten è un’artista in costante evoluzione, come dimostra il nuovo progetto che segna un coraggioso passo avanti. Da una scrittura completamente individuale e autonoma è passata a un approccio collaborativo e a uno scambio più libero con la sua band, The Attachment Theory. Il risultato è un album ricco di trame ed emozioni. I sintetizzatori sono centrali e i brani passano da momenti oscuri, quasi minacciosi, ad altri più danzerecci e luminosi. Nel disco si parla di perdita e mortalità, ma la cantautrice statunitense si avvicina a questi temi pesanti con curiosità e saggezza. Nell’arco di dieci canzoni non si resta mai nello stesso posto per molto tempo. Spicca I can’t imagine (why you feel this way), in cui la tensione è costruita in maniera magistrale per guidarci verso un passaggio potente e viscerale. Per tutto l’album la voce di Van Etten è dominante, come sempre. Si muove senza sforzo riuscendo a essere tenera, vulnerabile per poi crescere e diventare un pugno nello stomaco. La natura condivisa di questo lavoro sembra aver donato nuova vita alla sua musica, spingendola verso direzioni inaspettate. E visti gli argomenti che tratta, è giusto che suoni anche come una rinascita. Rinunciando a un po’ di controllo e abbracciando una creatività più spontanea, Van Etten ha creato un’opera personale e collettiva allo stesso tempo.
David Saxum, Northern Transmissions
Nelle sale da concerto la musica per piano di Rossini in sostanza non esiste. Su disco la situazione è stata la stessa per anni: c’era solo qualche pezzettino dal titolo divertente ripescato da Marcelle Meyer o Aldo Ciccolini (Prélude prétencieux, Ouf! Les petits pois, Un petit train de plaisir). Ma il mercato discografico ha bisogno di novità, così da un po’ sono spuntati dei recital e qualche integrale: una di Marco Sollini, che però si è interrotta, e una di Alessandro Marangoni, che presenta tutti i tredici volumi dei Péchés de vieillesse, con anche i pezzi vocali e quelli di musica da camera. Paolo Giacometti aveva cominciato per primo a registrare tutti i pezzi per pianoforte solo con quattro strumenti storici, un Pleyel del 1858 e tre Érard, del 1837, 1849 e 1858. Ora sono stati raccolti in un cofanetto. Le opere pianistiche di Rossini sono discontinue, ma spesso più interessanti di quel che sembra. Questa edizione è sicuramente la più raccomandabile, non solo per le sonorità degli strumenti, molto più adatti a questo repertorio di uno Steinway qualunque, ma anche per l’esecuzione sempre spontanea ed espressiva di Giacometti.
Gérard Belvire, Classica