“Ogni novità è pericolosa, ogni singolarità è sospetta”: questo slogan, citato in Immodest acts, il libro della storica statunitense Judith C. Brown che ha ispirato il film di Paul Verhoeven, apre il rapporto degli inviati del nunzio fiorentino al convento di Pescia, nella Toscana della Controriforma. Nel convento, suor Benedetta Carlini darà del filo da torcere agli inquisitori, sputando sublime e grottesco in faccia ai suoi aguzzini. Le novità pericolose e le singolarità sospette sono da sempre terreno di esplorazione del cinema di Verhoeven, “l’olandese violento”, che con Benedetta ha colpito ancora. Il suo film è barocco, formalmente e storicamente, sulla linea della Controriforma da cui prende in prestito l’onnipresente doppio movimento. E forse vuole suggerire che viviamo in un mondo barocco in molti aspetti. Perfetta in questo senso l’interpretazione di Virginie Efira che fornisce ogni sfumatura del personaggio senza fornirne nessuna. Luc Chessel, Libération
Francia / Paesi Bassi 2021, 127’.

Italia 2021, 119’.
Nanni Moretti torna a Cannes con una soap opera corale, godibile e ben strutturata su quattro famiglie che vivono nello stesso condominio, adattamento del popolarissimo romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo, Tre piani (Neri Pozza 2017), trapiantato da Tel Aviv a Roma. C’è un elemento di emolliente sentimentalismo, specialmente nel modo in cui le trame sono legate, ma anche una buona dose di gusto narrativo e d’ingegnosità. E ci sono echi (forse deliberatamente costruiti) della Stanza del figlio, film con cui Moretti vinse la Palma d’oro nel 2001. In qualche modo Tre piani non è troppo diverso da certi drammi di Woody Allen, realizzarti con forza e convinzione ma senza andare troppo in profondità. Peter Bradshaw, The Guardian
Stati Uniti / Germania 2021, 103’.

In termini di estetica, con Wes Anderson e il New Yorker il livello è sempre molto alto. Così erano le aspettative per quello che il regista statunitense ha definito “una lettera d’amore ai giornalisti”. Il film prende la forma dell’ultimo numero del French Dispatch, un giornale americano che ha sede nella cittadina inventata di Ennui, lungo il fiume Blasé, un avamposto statunitense in Europa. Così Anderson ci regala un’antologia messa insieme da tutto quello che ti aspetti di trovare su un numero del New Yorker: un sommario, rubriche, bellissimi disegni e poi tre corposi articoli. Come spesso accade nei lavori di Anderson, il film è caratterizzato dalla sensazione agrodolce di trovarsi leggermente fuori tempo: storie degli anni settanta narrate da giornalisti di mezza età che guardano ai loro giorni di gloria ormai passati. Interessante notare come i sogni in technicolor di Anderson siano caratterizzati da toni sempre più cupi. Colpisce il fatto che The french dispatch, cominciato a girare nell’autunno del 2018, finisca per riflettere alcuni degli argomenti più caldi dell’ultimo anno e mezzo e il meno contemporaneo dei registi hollywoodiani realizzi un film che parla di prigione, polizia e proteste. Nate Jones, Vulture
Francia / Belgio / Germania 2021, 87’.
Amina è una madre single che vive nella periferia di N’Djamena, capitale del Ciad, insieme alla figlia di 15 anni, Maria. Come in altri suoi film Haroun racconta la loro vicenda con un approccio calmo, silenzioso. I paesaggi urbani parlano da soli, i silenzi calcolati e le espressioni del viso dei personaggi dicono molto più dei dialoghi. Amina scopre che Maria è incinta e per questo è stata espulsa da scuola. Il confronto tra madre e figlia è duro. La ragazza vuole abortire, ma la madre è contraria. Le scene tra di loro sono crude e realistiche. Haroun evita enfasi e sentimentalismi e la gravidanza diventa un canale attraverso cui le due donne possono cementare la loro relazione. La questione su come abortire in un paese dove è legale ma praticamente ed economicamente impossibile occupa il resto di un film in cui la solidarietà tra donne molto diverse tra loro sembra essere l’unica ancora di salvezza. Lovya Gyarkye, The Hollywood Reporter