Nel 2004 le bande criminali resero Haiti ingovernabile minacciando l’integrità fisica del presidente ed ex sacerdote Jean-Bertrand Aristide (che era già stato presidente anni prima). Nel 2021 l’instabilità politica e il potere delle bande hanno portato all’omicidio del presidente Jovenel Moïse. Tra le due fasi storiche c’è stato un esperimento della comunità internazionale, con la partecipazione del Brasile: per più di un decennio una missione di pace dell’Onu ha cercato di costruire le istituzioni di un paese che viveva una situazione turbolenta fin dall’indipendenza, nel 1804. Ma l’intervento ha avuto risultati deludenti.
La “repubblica nera” creata da discendenti degli schiavi ispirò diversi movimenti popolari in America Latina e in Africa, ma questo influsso è svanito in una successione di colpi di stato, massacri e conflitti. Alla povertà materiale si aggiunge la sfortunata posizione geografica del paese, esposto a uragani e terremoti che ostacolano qualsiasi prospettiva di sviluppo.
Il lavoro sporco
Nel 2004 un’azione guidata dagli Stati Uniti e dalla Francia “invitò” Aristide, assediato da gruppi armati che controllavano Port-au-Prince e altre città, a rinunciare al potere. Poco dopo fu istituita una missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite (Minustah) e la direzione del contingente militare fu affidata al Brasile. L’idea era che lo sforzo avrebbe aumentato il prestigio internazionale del Brasile e facilitato la formazione delle truppe. In quel periodo 37mila brasiliani furono inviati ad Haiti. Ironia della sorte, molti generali che fecero carriera grazie alla missione di pace ad Haiti (patrocinata soprattutto dal governo Lula), hanno incarichi importanti nel governo di Jair Bolsonaro. Per esempio, il generale Augusto Heleno Ribeiro, attuale capo di gabinetto per la sicurezza istituzionale della presidenza. Appena arrivato ad Haiti, Heleno fu incaricato di combattere i gruppi armati che controllavano il centro della capitale. La missione costrinse le bande a ripiegare, ma non mancarono sospetti di eccessi durante le operazioni.
L’episodio più discusso, sotto il comando diretto del generale, fu l’operazione Pugno di ferro contro il capobanda Emmanuel “Dread” Wilmer, il 6 luglio 2005. L’attacco alla baraccopoli di Cité Soleil, con un contingente di 440 militari, centrò l’obiettivo di eliminare Wilmer e i suoi collaboratori. Ma presto si seppe che aveva causato la morte di sessanta civili. L’Onu non attribuì responsabilità ai militari, ma l’immagine dei brasiliani come invasori che facevano il lavoro sporco per conto degli statunitensi si rafforzò.
Il violento terremoto del 2010, seguito da un’epidemia di colera, fece aumentare la presenza internazionale ad Haiti, che si sarebbe mantenuta più o meno inalterata fino al 2017. Dopo la partenza dei caschi blu il paese è caduto di nuovo nel circolo vizioso dell’instabilità politica e istituzionale, dimostrando che non erano state gettate le basi per una democrazia stabile. Sotto alcuni aspetti, oggi ad Haiti la situazione è peggiore di quando al potere c’era la famiglia Duvalier, che governò con metodi autoritari per quasi tre decenni, fino agli anni ottanta.
In quel periodo la violenza veniva dallo stato e i gruppi paramilitari uccidevano gli oppositori. Oggi Haiti è ugualmente violenta, ma le minacce arrivano da più fronti. Lo sforzo per stabilizzare il paese sembra più difficile rispetto al 2004, quando si pensava che un esercito di caschi blu sotto il comando del Brasile sarebbe bastato per risolvere problemi vecchi di due secoli. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1418 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati