Una diciottenne ferita in una sparatoria in una delle principali vie di Rosengård, un quartiere di Malmö. Una medica trentunenne raggiunta da diversi colpi di arma da fuoco mentre era a passeggio con il figlio di due mesi: l’obiettivo era il marito, forse si trattava di un regolamento di conti. Queste e altre storie simili sono state raccontate negli ultimi anni dai mezzi d’informazione svedesi, per cui i rifugiati avrebbero trasformato Malmö in una città contesa dalle gang. Si tratta di fake news? No. O almeno, non proprio: ogni anno la polizia di Malmö segnala decine di sparatorie, per quanto il loro numero diminuisca di anno in anno. Nel 2019 ce ne sono state 26, tredici persone sono rimaste ferite e sei uccise. Nel 2018 le vittime erano state il doppio. Inoltre non è esagerato dire che le bombe esplodano regolarmente nelle strade di Malmö, per quanto ciò succeda sempre meno. Nel 2019 sono state 28, nel 2018 45 e nel 2017 addirittura 58. Molte, per una città con una popolazione di 340mila abitanti nell’idilliaca Svezia.
Che rapporto c’è tra questi dati e il senso di sicurezza percepito a Malmö? Stando a quanto riportato nel 2019 dal Consiglio nazionale svedese per la prevenzione della criminalità, più si scende verso sud, più la situazione peggiora. Nella contea della Scania, la regione in cui si trova Malmö, il 33 per cento dei residenti ha affermato di non sentirsi al sicuro dopo il tramonto, mentre a Rosengård, il quartiere dei rifugiati, dei migranti e delle minoranze etniche, il dato sale al 60 per cento.
Questi numeri dimostrano però che c’è un divario tra la paura e i crimini documentati. Gli abitanti dei quartieri dove gli immigrati sono la netta maggioranza temono i luoghi in cui vivono molto più di chi abita nel centro della città, eppure denunciano lo stesso numero di crimini, o perfino di meno, dei ricchi svedesi di Malmö. La sinistra svedese dice: ecco la dimostrazione di quanto sia dannosa la narrazione della destra sulla criminalità tra gli immigrati. La destra risponde: gli abitanti di Rosengård non denunciano i crimini perché hanno paura. Ma chi sono gli autori dei crimini? Questo non si sa, perché dall’inizio degli anni novanta le statistiche svedesi non riportano a quale gruppo etnico appartengono i criminali.
Nel 2020 a Malmö ci sono stati degli scontri dopo che alcuni estremisti di destra prevenienti dalla Danimarca avevano bruciato una copia del corano a Rosengård, pubblicando poi il video su internet. Il quartiere è stato messo a soqquadro – cassonetti incendiati, vetrine infrante – e alla fine a pulire sono stati i residenti, per lo più immigrati.
Queste storie hanno ispirato anche la cultura pop. A Rosengård è ambientata Il giovane Wallander, la serie Netflix anglo-svedese uscita nel 2020. I vicini di Wallander sono immigrati e quando un ragazzo svedese (biondo e con gli occhi azzurri) è ucciso nel quartiere, il principale indiziato è un uomo non bianco. Il giovane Wallander parla di immigrazione, neofascismo e corruzione – le tematiche che alimentano il dibattito politico svedese. Gli autori ammettono di avere lavorato sulla base di stereotipi. Il quartiere appare in condizioni terribili, cosa che non può non stupire chi – come me – conosce Rosengård, tanto pulito e ordinato da risultare noioso. Poi si scopre che la serie non è stata girata in Svezia, ma a Vilnius, in Lituania.
Nel 2017 l’allora presidente statunitense Donald Trump citò la Svezia e Malmö come esempio del fallimento della politica migratoria europea e vietò l’accesso negli Stati Uniti ai cittadini di sette paesi musulmani. I giornali di destra americani titolavano “Ex alto funzionario della polizia svedese: l’Europa delle frontiere aperte ha portato il crimine in Svezia”. In un articolo si leggeva: “In tutto il paese si formano ghetti dominati dalle bande d’immigrati. La polizia non può entrare e a ogni ora del giorno si sentono spari ed esplosioni”. Questa versione della situazione svedese è stata rilanciata un po’ ovunque.
Ma qual è la verità su Malmö? Si tratta solo di propaganda di destra? Di numeri ingigantiti? Di statistiche nebulose e confuse? Dell’immaginario della cultura pop?
Strategia americana
A mezzogiorno Rosengård è un deserto. In giro non c’è anima viva e anche i negozi sono vuoti. Mi dirigo alla stazione di polizia più vicina. Nell’edificio nuovo e del tutto ordinario (su internet ho letto che è una “fortezza armata fino ai denti”) la porta è chiusa. Un avviso appeso informa: in caso di necessità si prega di contattare il numero 112. Guardo attraverso la porta a vetri, ma dentro non c’è nessuno. Suono il citofono e busso, non ottengo risposta. Faccio il giro dell’edificio, ma è come se fosse abbandonato.
“Perché qui non c’è nulla di cui avere paura”. È questa la spiegazione di Glen Sjögren, vicecommissario del comando di polizia di Rosengård. Lavora nella polizia da trentacinque anni e da cinque si occupa del “quartiere del terrore”, com’è stato ribattezzato da alcuni mezzi d’informazione. Ride al telefono. “È vero, un paio di anni fa abbiamo avuto qualche problemino, ma non è rimasto altro che una cattiva reputazione”.
“E cosa è cambiato da allora?”, gli chiedo.
“Sono arrivato io”, scherza. “La verità è che da quattro o cinque anni si registra un significativo calo della criminalità a fronte di una popolazione che sostanzialmente è rimasta uguale. Un tempo era diverso: gli immigrati arrivavano, ricevevano delle case popolari, ma una volta trovato un lavoro si trasferivano. C’era una fortissima rotazione. Ora invece si fermano, mettono radici: questo è il loro quartiere e vogliono che sia tranquillo”.

“È per questo che sono calate criminalità e sparatorie?”.
“Sì. Qui vivono persone di oltre cento nazionalità, ma non si sentono più di passaggio. Inoltre le bande che imperversavano qui non avevano niente a che fare con i rifugiati. Erano gruppi profondamente radicati nel contesto locale. È vero che c’erano degli immigrati tra loro, ma di seconda o addirittura terza generazione. Per loro l’identità di quartiere era più importante di quella etnica”.
“Ma com’è la situazione dopo il tramonto?”.
“Da solo non vado in pattuglia”.
“Ha appena detto che è un quartiere sicuro”.
“Non è una questione di sicurezza: si tratta delle modalità operative della polizia svedese. Non si va in pattuglia da soli. E a Rosengård è meglio lavorare a piedi, perché ci sono troppi vicoli, parchi giochi, stradine strette. Per questo quando si esce di ronda si va in due”.
Sjögren ritiene che abbia aiutato anche il cambio di strategia basato sul modello statunitense. Primo, un dialogo sistematico con i leader criminali per convincerli ad abbandonare le armi. Secondo, la responsabilità collettiva, ovvero se c’è un omicidio le conseguenze le paga l’intera gang. “Mettiamo sotto torchio chiunque ci capiti sotto mano. Gli rendiamo la vita impossibile”.
Terzo, educazione e collaborazione: chi si è smarrito va aiutato a ritrovare la retta via. La condizione è che se ne vada da Malmö. È una città troppo piccola, e rimanere significa spesso rientrare nella criminalità.
Secondo Sjögren questa strategia funziona. “Sono le statistiche a dirlo. Nel 2017 ci sono state 65 sparatorie, nel 2020 poco più di venti”.
“Le bande criminali non avevano niente a che fare con i rifugiati. Per loro l’identità di quartiere era più importante di quella etnica”
“E il razzismo?”, domando.
“C’è anche qui. Soprattutto casi di antisemitismo”.
“Antisemitismo? In Svezia?”, dico incredulo.
“Perché ci sono molti immigrati dal Medio Oriente. Gli ebrei non gli vanno molto a genio e ogni tanto imprecano contro di loro. Ma se non ti piace qualcuno, non è ancora un reato”.
Al comando di polizia di Rosengård lavorano circa trenta poliziotti, impiegati per lo più nel pattugliamento delle strade.
“Perché questa mattina non ho trovato anima viva?”.
Sjögren ride. “Perché noi non lavoriamo 24 ore su 24. Gli unici a essere sempre in servizio sono i colleghi dell’unità anticrimine che si occupano proprio delle gang”.
“Capisce?”, dice alla fine. “Qui non succede nulla che non succeda anche nei quartieri più ricchi di Malmö. Per questo la priorità è la lotta contro le fake news che dipingono Rosengård come il quartiere della paura. Qui di giornalisti come lei ne ho visti arrivare a decine. E a ognuno di loro ripeto: ‘Scriva la verità’”.
Allora cerchiamo di capire qual è la verità.
Cucina, cucito e pulizie
Camminando attraverso Rosengård ritrovo ovunque la stessa tranquillità, i parchi giochi e i bambini. Sento uno scoppio, ma è sola la mia immaginazione che ingigantisce il rumore di una lattina di coca-cola schiacciata dalla ruota di un’auto. Mi imbatto in un negozietto polacco. Mi fermo alla cassa per scambiare due parole con la donna che lo gestisce.
“Allora Sylwia, come si vive qui?”.
Fa un gesto rassegnato con la mano.
“Perché?”.
“Qui ognuno va in giro armato. Come negli Stati Uniti”.
Accanto un giovane polacco sta ascoltando la nostra conversazione mentre ripone gli acquisti nella borsa. Poi dice: “È cominciato tutto con l’11 settembre, quando sono arrivati i primi marocchini. Anche se personalmente non mi hanno mai fatto niente”.
Di sera il quartiere è vuoto come di giorno. Attraverso il famoso tunnel dove è stata affissa una targa con le parole del calciatore Zlatan Ibrahimović, cresciuto in queste strade: “Puoi togliere un ragazzo da Rosengård, ma non Rosengård da un ragazzo”. Il sorriso di Ibrahimović è protetto da un vetro infrangibile per impedire ai tifosi di distruggerlo: il calciatore infatti ha investito nella squadra locale avversaria.
Le aiuole sono molto curate, le biciclette senza lucchetto, le reti delle porte nei campetti da calcio integre, sui muri neanche un graffito. Silenzio, monotonia, noia.
Malmö, la terza città più grande della Svezia, era una delle principali destinazioni dei polacchi in fuga dal regime comunista. All’epoca della legge marziale, all’inizio degli anni ottanta, chiunque poteva ottenere asilo qui. Ma Fredrik Björk mi fa notare che la migrazione in Svezia ha una tradizione di ben 150 anni. Lo incontro nella sala ricreativa della Yalla trappan, una cooperativa che si occupa dell’inserimento lavorativo delle immigrate. È tardo pomeriggio, la sala è vuota, fuori mamme e bambini vanno a spasso nei giardinetti curati.
Fredrik porta dei jeans e una camicia a quadri: “Problemi con gli stranieri a Malmö? Sono tutte sciocchezze”. Poi senza smettere di sorridere, comincia la sua lezione di storia.

“I primi ad arrivare, nell’ottocento, furono gli emigranti originari della Galizia, per lo più ucraini e polacchi. Dopo la guerra arrivarono gli ebrei sopravvissuti all’olocausto. In seguito cominciò una fase di forte industrializzazione. C’era carenza di manodopera, si assumevano lavoratori da tanti paesi: Italia, Spagna, Portogallo e Israele. Poco importava se uno fuggiva dal comunismo o da una dittatura di destra. Rispetto a quei tempi una cosa è cambiata: prima ricevevi subito un appartamento e un lavoro, ora non è più così. Oggi la Svezia soffre di ‘progettite’. Finché ci sono i soldi i progetti vanno benissimo. Quando finiscono la gente resta senza niente. Per questo alla Yalla trappan i fondi pubblici rappresentano solo metà del budget. Qualunque cosa facciamo dev’essere economicamente sostenibile”.
La dimostrazione è la marmellata di limoni, spunto per la lezione successiva: come fare il capitalismo nella Svezia socialdemocratica.
“Una delle nostre lavoratrici aveva portato con sé dal Libano la ricetta della madre per fare la marmellata di limoni. È stata un successo. Un prodotto biologico, senza conservanti. Un barattolo costa 8,50 euro, ma si vende benissimo. Per più di un decennio centinaia di persone hanno trovato lavoro grazie alla Yalla trappan. Ma la cooperativa aiuta solo le donne impiegate in attività di cucina, pulizia e cucito”.
“Mi sembra un po’ limitante”.
“Molte di queste donne nei paesi di origine non uscivano mai di casa. Ma qui tutti devono lavorare, e per molti c’è un grosso shock culturale da superare. Per questo abbiamo deciso di aiutare le donne. Prendiamo quelle che devono cominciare da zero. Cucina, cucito e pulizie. Gli facciamo capire che sanno fare già molte cose utili. È poco probabile che possano lavorare in un ufficio senza conoscere una parola di svedese. Del resto non gli insegniamo niente di particolare: ci limitiamo a mostrargli che quello che facevano a casa può diventare la loro attività professionale”.
“La cucina, una scopa? Davvero?”.
“Anch’io vorrei che ognuna di loro si sviluppasse poi in un ambito professionale diverso, ma non sempre è possibile. Una delle nostre ragazze ha seguito un programma di tirocinio per cuoche e recentemente è tornata da noi per lavorare dietro a una scrivania. È una manager, gestisce un nostro locale nel Västra hamnen (porto occidentale), il quartiere più alla moda della città”.
“E che fate con le donne che non riescono a cavarsela?”.
“Noi non le monitoriamo. Il nostro obiettivo non è controllare quello che fanno, è aiutarle a cominciare un’esistenza autonoma in questo paese. È questo l’unico modo per cambiare l’atteggiamento degli svedesi rispetto al problema dell’immigrazione”.
Queste parole mi lasciano un po’ perplesso. “Eppure la Svezia passa per uno dei paesi europei che se la cavano meglio con le sfide delle migrazioni di massa”, faccio notare.
Il problema secondo Fadi è anche che gli svedesi trattano gli stranieri con condiscendenza, come se fossero dei bambini
Il sorriso di Fredrik si allarga.
“La Svezia ha un’ottima immagine. Tutta l’Europa è convinta che la nostra economia sia molto attenta alla società. Non è così, o almeno non come era dieci o quindici anni fa. Lo vedo dalle mie studenti: durante la pandemia molte di loro hanno perso il lavoro e non avevano un’assicurazione che le tutelasse. Così hanno cominciato a lavorare a contratto: un anno, sei mesi. Se le cose continueranno ad andare come ora avremo un nuovo proletariato. Senza parlare dell’immigrazione. Prendiamo anche noi la nostra quota di profughi, ma qui a Rosengård nelle scuole non ci sono più bambini di origini svedesi. Ci sono intere classi dove lo svedese è la seconda lingua, a casa non lo parlano o lo parlano male e con un forte accento, e su questo gli svedesi sono molto suscettibili”.
Fredrik abita in centro, tra i suoi vicini ci sono statunitensi, romeni e una famiglia sudafricana. Tra loro e gli svedesi c’è come una barriera di cristallo, non si conoscono se non superficialmente. Fredrik ritiene che gli svedesi si fidino sempre meno degli stranieri.
“Per questo è necessario chiedersi nuovamente cosa significa essere svedese. Al momento vuol dire essere una persona media, comune: né troppo aperta né troppo chiusa. Questo è il motivo per cui non riusciamo a integrare pienamente gli stranieri nella nostra società. Ma proprio per il fatto che siamo così fieramente ordinari e comuni, ho ancora la speranza che i nazionalisti non prenderanno mai il potere in Svezia”.
Hummus svedese
Fadi Barakat è nato negli Emirati Arabi Uniti. È arrivato in Svezia quando aveva tre anni, insieme alla madre e al fratello. Lavora in un ufficio del comune di Malmö, aiuta gli immigrati ad avviare un’attività commerciale. È cresciuto a Rosengård. “Dai, vieni che ti faccio vedere questo famigerato quartiere del crimine”, dice. Saliamo su un suv bianco. “Vedi? Mi sono anche comprato una Volvo per essere più svedese”.
Fadi è giovane ed energico e si veste con stile. Barba curata, capelli ben pettinati, indossa un giubbetto nero e una polo.
Le gang? Secondo lui il vero problema è che s’impone agli immigrati di abbandonare la loro identità e di diventare dei veri svedesi. Con la sola eccezione del cibo: “Sembra che il falafel sia stato inventato qui. Anche lo ‘yogurt di Malmö’ viene premiato alle fiere alimentari, nonostante sia greco”.
Ma quando Fadi parla della Svezia e dei suoi cittadini usa il “noi”. Si è iscritto all’università, suo fratello è un imam, alcuni dei suoi cugini sono finiti dietro le sbarre, per quanto siano partiti tutti dallo stesso luogo, dallo stesso condominio.
“Mia madre era molto severa”, spiega Fadi. “Ha sposato uno svedese che poi si è convertito all’islam. Mia zia invece ha cresciuto i suoi figli da sola. Non ce la faceva. Ecco, questa è la mia scuola elementare”, dice indicandomi un edificio. “È una delle peggiori di tutto il paese. In classe c’erano solo figli di stranieri, ancora oggi i loro genitori non spiccicano una parola di svedese. Poi, quando sono andato al liceo, ho trovato un muro: solo ragazzi svedesi. Nessuno credeva in me, neppure gli insegnanti. Ho detto che avrei voluto studiare medicina e mi hanno risposto che non avevo nessuna possibilità. Così dopo la scuola mi sono arruolato nell’esercito. Volevo che cominciassero finalmente a prendermi sul serio”.

“Ma ti sentivi svedese?”.
“Io sì, ma non ero accettato da tutti. Il mio superiore era un islamofobo. Una volta non ce l’ho fatta più: ho registrato una delle sue tirate contro i musulmani, l’ho denunciato alle autorità militari e il giorno dopo è stato cacciato dall’esercito. Quando ho cominciato l’università non riuscivo a liberarmi della sensazione che rispetto agli altri mi mancasse qualcosa. Per questo m’iscrivevo ai corsi, raccoglievo certificati. Finché un giorno mi sono trovato di fronte a un recruiter, una persona che si occupa di cercare e selezionare lavoratori. Ha guardato il mio curriculum e mi ha detto: ‘Hai delle ottime qualifiche, non avrai problema a trovare lavoro. Però ti consiglio di cambiare nome. È troppo arabo’. Gli ho detto: ‘Senti un po’, quando stavo nell’esercito mi occupavo della tua sicurezza, difendevo il tuo paese’. È la prima volta che Fadi parla della Svezia come se non fosse il suo paese.
“Ho capito che il problema non era in me, ma nella Svezia. Alla fine ho trovato lavoro in una multinazionale che si occupa della selezione del personale, e mi sono seduto dall’altra parte della scrivania. Assumo anche duecento persone all’anno. E ho cominciato a cercare proprio qui”, dice indicando il sottopassaggio della ferrovia, oltre il quale inizia Rosengård.
“E ho fatto centro. Sì, perché gli abitanti di Rosengård sono aggrappati al lavoro con le unghie e con i denti, mentre gli svedesi rinunciano subito”.
Il problema secondo Fadi è anche che gli svedesi trattano gli stranieri con condiscendenza, come se fossero dei bambini.
Superiamo la Yalla trappan, la cooperativa che si occupa di cucito, cucina e pulizie. Fadi: “Questa non può essere la soluzione di tutti i problemi. Non è che se uno arriva in Svezia può pensare di lavorare solo negli impieghi più modesti”.
Passiamo accanto a una serie di prefabbricati, bar, locali gastronomici mediorientali, negozi, un parrucchiere, un’estetista. Nonostante la pandemia i clienti non mancano. Si tratta per lo più di uomini di mezza età, con la carnagione olivastra e la barba lunga. Di tanto in tanto delle donne in hijab, con i bambini nella carrozzina.
“Il commercio va bene”, dice Fadi. “Ma se entri in uno di questi negozi trovi errori di ortografia ovunque. Sono negozi aperti da immigrati per altri immigrati, nel quartiere degli immigrati. Perché quel ragazzo che vende kebab non può aprire la sua attività in centro, nella piazza principale?”. La voce di Fadi ora tradisce l’irritazione. Il suo progetto ha permesso di avviare 28 attività economiche, per lo più gestite da immigrati.
“Guarda quel locale”, dice mostrandomi un negozio dove si produce e vende hummus. “Quel ragazzo è arrivato in Svezia quattro anni fa, senza un progetto. Lo abbiamo aiutato e gli abbiamo fatto capire che deve impegnarsi per essere accettato. E guarda un po’, ha funzionato: un locale hipster svedese, Hummusson. Ha unito la cultura svedese e le sue origini. Questa è vera integrazione, senza ombra di condiscendenza”.

Fadi continua a elencare altri errori nell’atteggiamento degli svedesi nei confronti degli immigrati: mancanza di dialogo, atteggiamento di superiorità. Un esempio: passiamo accanto a una piccola parete da arrampicata. Non c’è neppure un bambino. Poco oltre un campetto da calcio affollatissimo.
“Abbiamo dato per scontato che i ragazzi di Rosengård avessero bisogno di una parete da arrampicata. Nessuno gli ha chiesto se non volessero invece un altro campetto da calcio”.
Altro difetto: il rinnovamento urbano.
“Le aziende immobiliari vogliono costruire grattacieli, perché l’amministrazione dice che bisogna sollevare la città. Ma quelle che andrebbero sollevate sono le persone”.
“E come si fa a cambiare le cose?”, chiedo.
“Alcuni nostri politici appartengono alle minoranze etniche, ma sono pochi. Da questo punto di vista il Regno Unito è ancora molto lontano”.
“Quanto sono forti i nazionalisti?”.
“I Democratici svedesi non mi preoccupano troppo, anche se sono abbastanza rumorosi”, risponde Fadi. “In generale gli svedesi sono per natura poco inclini al nazionalismo. Lo svedese medio preferisce la cultura del compromesso, rifiuta qualsiasi forma di estremismo”.
Identità sfuggente
Il partito di estrema destra dei Democratici svedesi (Sd) è la terza forza politica in Svezia. Ha circa il 19 per cento dei consensi, mentre i socialisti, il primo partito del paese, sono intorno al 27 per cento. I nazionalisti considerano il numero crescente dei musulmani una seria minaccia all’identità nazionale, anche se loro stessi hanno problemi a definire cosa significa essere svedese. Tra le componenti fondamentali indicano il rispetto per la natura e la tradizione della _ fika_, la pausa per il caffè e il dolcetto durante il lavoro. Tra le cause della debolezza del paese invece annoverano la neutralità politica e militare, perché a differenza di altre nazioni la Svezia non può contare sull’esperienza militare come collante per la società.
Provo a contattare l’ufficio dei Democratici svedesi di Malmö ma non ottengo risposta. Per ragioni che attribuiscono alla pandemia nessuno della sezione locale giovanile del partito è disposto a incontrarmi. Il partito ha alcuni rappresentanti nel consiglio comunale e anche dei deputati nel parlamento della regione, che sostengono di avere trovato il modo per ridurre il numero dei migranti e limitare l’influenza dell’islam. Come? Lo chiedo per email agli indirizzi dei singoli politici, ma anche questo tentativo non ha alcun effetto.
“Gli svedesi non nascondono il loro fastidio se qualcuno parla male la lingua. È un motivo sufficiente per scartarti a un colloquio di lavoro”
Alla fine la portavoce della sezione locale accetta di parlare con me. Si chiama Nima Gholam Ali Pour e ha origini iraniane. Considerata la campagna contro l’immigrazione condotta dal suo partito, questo mi sembra quanto meno curioso. In ogni caso risponde al telefono e ascolta le mie domande.
“La metto in contatto con uno dei rappresentanti del partito a Malmö”, mi dice. Dopo tre giorni un politico mi risponde di essere troppo occupato e m’invita a rivolgermi al consigliere comunale, lo stesso che si era già rifiutato di parlare con me. Telefono ad altri deputati, ma non rispondono. Mi rivolgo di nuovo alla sezione giovanile e faccio delle domande sull’immigrazione, ma il partito che ha fatto di questo tema il suo cavallo di battaglia non ne vuole parlare con me.
In compenso ne ha parlato abbondantemente in campagna elettorale. I Democratici svedesi attribuiscono il loro successo al fatto che gli svedesi sono stanchi delle ondate di profughi e immigrati. Jörgen Grubb, leader del partito a Malmö, ha più volte sottolineato la sofferenza delle città a causa del fenomeno migratorio.
Cosa pensano i Democratici svedesi del concetto di integrazione? Dalle loro dichiarazioni sembra che lo intendano come sinonimo di omologazione. Non mi è molto chiaro per quale ragione un immigrato non sarà mai capace di integrarsi in pieno, ma è con questo argomento che i Democratici svedesi sostengono che chi non è nato e cresciuto in Svezia non ha alcuna possibilità di diventare un vero svedese.
Niente Mercedes
Passeggio insieme a Fadi, tre ragazzini giocano in un campetto da calcio. Fadi gli dà il cinque per segnalargli che è tutto a posto: “Sei un giornalista e non vorrei che pensassero che stiamo facendo una specie di safari”.
Torniamo alla sua auto e mi fermo aspettando che la apra. “Sali pure, è aperta. Qui non c’è neppure bisogno di chiudere la macchina”. Ci dirigiamo verso il mare, nel Västra hamnen. Fadi si è trasferito qui dopo aver abitato per trent’anni in diverse zone nella periferia di Malmö.
“Il concessionario mi ha detto: non comprarti una Mercedes nera. Quando gli ho chiesto perché, mi ha detto sfacciatamente che è una cosa pacchiana, che gli svedesi associano una simile mancanza di gusto agli arabi e che questo è un quartiere di ricchi svedesi. Così mi sono comprato una Volvo bianca. Ma in garage ho anche una Bmw nera”.
Il Västra hamnen è il vecchio quartiere degli operai, ma oggi ci vive la classe media. Cucina fusion, boutique alla moda, loft, startup. Su tutto svetta il Turning Torso, un gigantesco grattacielo che è diventato l’orgoglio di Malmö. Ci avviciniamo al vecchio cantiere navale, che tra non molto sarà sostituito da spazi per il coworking e appartamenti. È il simbolo del piano di sviluppo di una città che ha già un collegamento con Copenaghen e ne sta pianificando uno con Amburgo.
Chiedo a Fadi di dirmi qualcosa sulle rapine, i regolamenti di conti, le violenze che hanno sconvolto le tranquille strade di Malmö.

“È stato un decennio buio, in cui la criminalità è cresciuta soprattutto tra i giovani immigrati. Abbiamo sbagliato a chiudere i centri sportivi e ricreativi di quartiere, i luoghi dove è cresciuto Ibrahimović. Lì i ragazzi erano protetti, controllati. Se c’era in giro uno spacciatore veniva allontanato. Quella criminalità era alimentata da problemi concreti, non aveva nulla a che fare con le questioni etniche o razziali. I ragazzi volevano vestiti firmati e derubavano i coetanei. Lo facevano perché non vedevano nella società svedese nessuna possibilità di affermarsi. Per questo dobbiamo rispondere alla domanda su cosa significa oggi essere svedese”.
Nell’ufficio di Fadi ci aspetta Fatima, una ragazza di origini palestinesi. Quando è arrivata in Svezia dalla Siria insieme alla sua famiglia aveva 19 anni. I capelli corti e corvini con la riga in mezzo incorniciano il viso magro. Mi sorride timidamente poi si rivolge a Fadi in svedese. È arrivata in Svezia dopo avere finito il liceo a Damasco. “Purtroppo il mio diploma non era riconosciuto. Così stavo tutto il tempo a casa, perché non sapevo la lingua e senza è impossibile cominciare una vita in questo paese. All’inizio è stato difficile”.
Si è iscritta a dei corsi gratuiti di svedese per stranieri, ma gli insegnanti non correggevano l’accento e la pronuncia.
“Gli svedesi non nascondono il loro fastidio se qualcuno parla male la lingua. È un motivo sufficiente per scartarti a un colloquio di lavoro, negarti un mutuo, bocciarti a un esame universitario”.
Lo aveva detto anche Fredrik, precisando che succede a prescindere dalla nazionalità, che tu sia un programmatore statunitense o un profugo del Medio Oriente. “Io me la sono cavata perché mia madre ha sposato uno svedese, quindi ero immerso nella lingua fin da piccolo”, dice Fadi.
Fatima si è iscritta ad altri corsi e poi ha cominciato a studiare giornalismo all’università di Lund. È un ottimo ateneo, per quanto un po’ snob, spesso paragonato a Oxford e a Cambridge.
“Ho resistito quindici giorni”, dice con un gesto nervoso della mano. “La maggioranza degli studenti del mio anno erano svedesi, identici nell’aspetto e nel modo di parlare. Non volevano fare amicizia con me perché avevo una cattiva pronuncia, un accento straniero. Nella pausa durante le lezioni andavo a fumare da sola, anche se sono una persona molto socievole. Avevo paura. Mi facevano capire che non andavo bene, che non ero adatta a quel contesto. Non avevo alcun appoggio, mi sentivo al sicuro solo a casa con mio marito, che è svedese”.
Così Fatima si è iscritta all’università di Malmö. Una realtà del tutto diversa, con molti studenti di origini straniere. Per mantenersi ha fatto la cameriera e la commessa, perché non conosceva nessuno. “In Svezia se non hai dei contatti ti puoi scordare di avere un lavoro prestigioso e ben pagato”, spiega. “Ho trovato lavoro solo perché conoscevo Fadi”.
“Per gli immigrati maschi è più difficile, anche se questo alla Yalla trappan non te lo diranno”, aggiunge Fadi.
“Ma la parità di genere non dovrebbe essere un fondamento della società svedese?”, chiedo.
Dal 2015 in Svezia è diventato sempre più difficile per i migranti ottenere anche solo il permesso di soggiorno temporaneo
“Sì, ma questo non vale necessariamente per gli immigrati”, dice Fadi. “Una donna che proviene da un paese islamico troverà lavoro prima di un uomo perché la gente tende a considerarla una vittima. Un uomo invece è visto come un pericolo, come un terrorista”.
“Mio fratello ha imparato bene lo svedese, ma non è bastato”, dice Fatima. “Quando lavoravo in banca mi sentivo molto a disagio perché avevo un accento terribile”.
“Ma tu a che nazionalità senti di appartenere?”, chiedo a Fatima. Ci pensa su, poi dice che non lo sa neppure lei.
“Ma una volta eri di un’altra opinione”, commenta Fadi. “Parli svedese, abiti e lavori qui, hai la cittadinanza”.
“Sì, ma non mi sento svedese”.
“Per qualche tempo ho fatto l’insegnante, i miei allievi erano quasi tutti figli d’immigrati”, dice Fadi. “Una volta ho chiesto: chi di voi si sente svedese? Solo uno si è alzato, anche se tutti erano nati a Malmö. Il sistema educativo svedese definisce l’appartenenza nazionale secondo il criterio etnico e culturale. Quei ragazzi non erano svedesi nell’aspetto e per questa ragione non si sentivano tali. Non può essere altrimenti se i libri o le pubblicità mostrano solo persone di origini svedesi. Bisognerebbe inculcare in questa società l’idea che essere svedese non significa essere biondo, avere gli occhi azzurri e il cognome che finisce in _ -sson_”.
Finita la conversazione, io e Fadi ci dirigiamo verso la sua macchina. Quando faccio per aprire la portiera scopro che in centro la macchina la chiude.
I tempi cambiano
Incontro Sara Kasas in un caffè nel centro di Malmö. È una giornalista della tv pubblica e collabora con la rivista The Pilgrim, dedicata ai viaggi e all’immigrazione. I suoi genitori sono arrivati in Svezia dall’Iraq, lei è cresciuta qui.
“Mi sono resa conto che qualcosa ci divide quando sono diventata adolescente, perché all’improvviso dei conoscenti svedesi hanno cominciato a chiedermi: ‘Ehi, Sara, come vanno le cose a Baghdad?’. Ma cosa potevo rispondere io che avevo vissuto sempre in Svezia?”.

Alla tv pubblica Kasas è la “sentinella della multiculturalità”. Nei servizi tutte le persone intervistate sono bionde, uomini e donne. “È questa l’immagine che vogliamo dare della Svezia? Da molto tempo non riflette più la realtà del paese”.
L’istituto per le ricerche sulle migrazioni dell’università di Malmö monitora sistematicamente la composizione della società. Gli ultimi dati indicano che quasi due degli oltre dieci milioni di abitanti del paese sono nati all’estero. Più di 400mila persone sono nate in Svezia da genitori di altri paesi. Circa 580mila cittadini svedesi ha almeno un genitore appartenente a un altro gruppo etnico. A Stoccolma, Göteborg e Malmö le persone di origine svedese sono ormai solo la metà della popolazione. Eppure il sito del governo dedicato alle minoranze non indica neppure uno dei gruppi etnici che negli ultimi decenni si sono trasferiti in Svezia.
Invece ci sono informazioni sui gruppi etnici “tradizionali”, come ebrei, rom, lapponi. Oppure sulla minoranza etnica svedese della Finlandia o sui tornedaliani, un gruppo etnico finlandese che si è trasferito nel nordest del paese nel trecento.
“I tempi sono cambiati”, dice Kasas. “In posti come Malmö un abitante su tre ha la pelle scura. I mezzi d’informazione pubblici dovrebbero rappresentare anche questi cittadini, e non c’entra niente il politicamente corretto. Non è una questione di ideologia o d’identità, ma di professionalità”.
Tra i miei interlocutori svedesi Sara è l’unica che considera la crescita dei Democratici svedesi un pericolo reale.
“Nel 2015, quando è scoppiata la crisi migratoria, in Svezia erano in pochi a dubitare che bisognasse accogliere più gente possibile. Oggi due svedesi su tre sono convinti che dovremmo smettere di accogliere profughi e immigrati”.
Sara pensava che fosse impossibile dialogare con i simpatizzanti dei Democratici svedesi, ma ha cambiato idea.
“Una volta ero in fila davanti a un locale. A un certo punto è arrivato un tipo losco con delle croci celtiche tatuate e mi ha chiesto una sigaretta. Ero sicura che mi avrebbe insultato, dato che il mio aspetto è tutt’altro che svedese. Ha detto che era stato in prigione e che una volta uscito nessuno lo aveva aiutato. Non riusciva a trovare lavoro e ha capito che lo stato svedese se ne fregava di quelli come lui. Votava per i Democratici svedesi perché promettevano di favorire gli svedesi. Mi dispiace per quelli come lui. Persone che appoggiano i fascisti non perché siano razziste, ma perché i governi svedesi non hanno mai avuto nulla da offrirgli”.
Lettere anonime
Tatjana Ristovski è arrivata a Malmö dalla Jugoslavia negli anni settanta. Oggi dirige l’Ikf, un’organizzazione che aiuta le donne a entrare nel mondo del lavoro. “Senza una mano non ce la fai”, spiega. Sono seduto con Tatjana in un’ampia sala negli uffici dell’Ikf. Le finestre si affacciano sul Kungsparken, un parco nel centro della città.
“È come se gli immigrati in Svezia andassero a sbattere contro un muro di cristallo. Agli svedesi piace trattare i profughi come vittime. Li aiutano, ma non vedono in loro alcun potenziale”.
Indossa una giacca elegante e dà l’impressione di avere molta esperienza nel mondo degli affari.

“Ogni ondata di profughi è stata diversa. I primi venivano dalla Grecia o dalla Jugoslavia. Arrivavano, trovavano subito lavoro e dopo qualche anno tornavano a casa. Oppure restavano ma continuavano a vivere nella propria comunità etnica, come mia madre. Alcuni di loro ancora non parlano lo svedese. Nella mia scuola c’era solo un bambino svedese. Ricordo che una volta la direzione ne voleva aggiungere un altro e i genitori protestarono. Oggi la situazione è opposta. Abbiamo medici e architetti che vengono da famiglie immigrate, ma non trovano impiego nella loro professione”.
“E a Rosengård come vanno le cose?”.
“Oggi più che un quartiere di miseria e criminalità è una storia di successo. I migranti si trasferiscono in centro, ormai se lo possono permettere”.
Una delle ragazze che lavora con Tatjana si chiama Kaisa. Sua madre si è trasferita a Malmö dalla Polonia poco prima del crollo del regime. Le chiedo di dirmi qualcosa sull’importanza di apparire svedese, sulla pronuncia e le ripeto quello che ho sentito. Kaisa è d’accordo: “In questo paese non c’è una grande varietà nell’abbigliamento femminile. Mia madre indossava gonne corte e usava rossetti molto sgargianti. Secondo me stava benissimo, ma la gente non la pensava così. Ci mandavano delle lettere anonime in cui le davano della prostituta. Una volta a scuola mi hanno detto che avrei fatto la fine di mia madre. Per molto tempo ho tenuto nascoste le mie origini, e anche lei pensava che fosse meglio così”.
“Per quale motivo?”.
“Penso che fosse preoccupata della mia sicurezza e della mia integrazione. Abitavamo in Svezia, parlavamo svedese, io studiavo in una scuola svedese. Oggi ho una relazione con uno svedese, ma continuo a non sentirmi del tutto accettata. Una volta sono andata in banca per chiedere un prestito e sono quasi sicura che non me l’abbiano concesso per via della mia origine polacca. L’impiegato mi ha fatto notare che il mio secondo nome è Agnieszka. Una mia collega che guadagnava meno di me aveva ricevuto un prestito, ma lei è bionda e il suo cognome finisce in -sson”.
Secondo Kaisa “in questo paese non siamo ancora in grado di vedere nei migranti competenze, talento, potenzialità, ma solo delle vittime. Per quanto a Malmö le cose vadano meglio che a Stoccolma. Là c’è il ghetto, la segregazione”.
Dal 2015 è diventato sempre più difficile per i migranti che arrivano in Svezia ottenere anche solo il permesso di soggiorno temporaneo. Secondo le statistiche del Consiglio europeo per i rifugiati e gli esiliati, nel 2020 la domanda di soggiorno è stata presentata da quasi 13mila persone. Il 71 per cento delle domande è stato respinto, contro il 42 per cento del 2014. Se uno straniero riceve i documenti svedesi deve trovare un lavoro entro tre anni. Se alla fine di questo periodo non ha un impiego non può chiedere il permesso di soggiorno permanente e viene espulso.
Al mio ritorno in Polonia, appena esco dall’aeroporto chiamo un taxi.
“Fatto un lungo viaggio?”, mi chiede il tassista.
“Dall’Ucraina?”.
“Dalla Svezia”.
“Malmö?”.
“Sì, Malmö”.
“E come vanno le cose? I marocchini continuano a rompersi la testa?”. ◆ dp
“No”. “Dall’Ucraina?”. “Dalla Svezia”. “Malmö?”. “Sì, Malmö”. “E come vanno le cose? I marocchini continuano a rompersi la testa?”. ◆ dp
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Questo articolo è uscito sul numero 1418 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati