Negli ultimi dieci anni, l’ex frontman dei Porcupine Tree ha mostrato un desiderio quasi diabolico di confondere le aspettative del suo pubblico. Con The overview il musicista britannico sembra tendere a un ritorno alla forma, e per forma intendiamo uno space prog anni settanta, ma in qualche modo riesce a trovare un equilibrio tra gli eccessi progressive amati dai suoi vecchi fan più accaniti e l’accessibilità pop che ha cominciato a inseguire negli ultimi tempi. Il disco è costruito sull’effetto della veduta d’insieme, il cambiamento cognitivo dato dalla visione della Terra dallo spazio registrato dagli astronauti quando sono in volo, con cui si rendono conto di quanto siamo piccoli rispetto alla vastità del cosmo. The overview si sviluppa su due suite dalla struttura simile: ambient all’inizio, sviluppo rock, un centro pop, picchi strumentali e finali ariosi. È un lavoro che potrebbe rappresentare la carriera di Wilson vista dall’alto, la sintesi di un arco artistico: dallo space rock dei Porcupine Tree alle deviazioni art pop, per tornare indietro e integrare tutte le strade percorse finora.
Scotty Dransfield, Under the Radar Mag


L’inizio di Jubilee, l’album del 2021 dei Japanese Breakfast, vedeva la cantante e leader Michelle Zauner entusiasticamente lanciata verso un’ impresa: “Come ti senti quando sei al massimo del tuo potere e vuoi conquistare tutti i cuori?”. Oggi, quasi quattro anni dopo, l’artista statunitense apre il nuovo disco trovando il benessere nel buio, con l’ottimismo di Jubilee dissolto in una morbida nebbia cosmica: “La vita è triste, ma qui c’è qualcuno”. Prodotto da Blake Mills, è pieno di chitarre vellutate, violini sensuali e pianoforti luccicanti. Il primo singolo tratto dal disco, Orlando in love, ripercorre con un tocco panoramico, quasi pittorico, la storia dell’eroe della letteratura rinascimentale italiana. La voce sale e scende come la marea, mentre gli archi sembrano dipingere catene montuose. Il compatto muro ritmico di Honey water ricorda il fumoso alt rock del secondo album della band, Soft sounds from another planet, mentre Picture window è un brillantissimo, fitto groviglio di country, rock e pop. Il pezzo finale, Magic mountain, dipinge un altro sfarzoso panorama di ampiezza cinematografica, disseminato di grappoli di campane celestiali: “Quando sarà passata la febbre, tornerò in pianura rinata”, canta Zauner, rinunciando alla frastornante esultanza di Jubilee per qualcosa di più tenebroso, sottile e solido.
Zoë White, The Skinny
Se riuscite a immaginare una combinazione della musica e della scrittura per tastiera alternativamente notturna e percussiva di Bartók, unita alla rigogliosità cromatica di Szymanowski o Skrjabin, allora avrete una buona idea di cosa aspettarvi da questi due meravigliosi concerti. Ahmet Adnan Saygun (1907-1991) fu senza dubbio un compositore importante, uno degli ultimi grandi musicisti nazionalisti attenti alle basi etniche. Assorbe completamente le influenze della musica popolare turca in un linguaggio evocativo e personale che ha abbastanza legami con la tradizione occidentale da consentire agli appassionati dei grandi concerti romantici di non perdere l’orientamento, pur assaporando numerosi suoni nuovi, colorati e atmosferici. Il primo concerto risale agli anni cinquanta, il secondo (composto per la splendida solista di questa registrazione) ai tardi anni ottanta. Nel secondo c’è forse un tocco di raffinatezza in più, ma sono entrambi pieni d’idee accattivanti e offrono numerose opportunità virtuosistiche al pianista. Le esecuzioni sono fresche, idiomatiche e piene di fuoco. Se non conoscete ancora questo compositore magistrale, avete trovato un ottimo punto di partenza.
David Hurwitz, ClassicsToday