Poco prima delle otto di mattina del 1 dicembre 2020 Ada Monzón era a Guaynabo negli studi della Wapa, un’emittente televisiva di Puerto Rico. Si stava preparando a dare un aggiornamento sul meteo quando ha ricevuto un messaggio da un amico. Jonathan Friedman, un fisico che vive vicino all’osservatorio di Arecibo, a circa un’ora e mezza da San Juan, le aveva inviato una foto scattata dal giardino di sua cognata: il cielo blu intenso dei Caraibi e le verdi colline calcaree coperte di foreste fitte. Nella foto una sottile nuvola di polvere aleggiava sopra gli alberi. L’immagine era interessante non per quello che mostrava, ma per quello che mancava. In una giornata normale, in effetti in qualunque giorno prima del 1 dicembre 2020, uno scatto da quel giardino avrebbe catturato la piattaforma da 900 tonnellate del radiotelescopio di Arecibo, con la sua gigantesca cupola gregoriana, che galleggiava sulla valle sospesa ai cavi a 170 metri da terra. La foto era accompagnata da un messaggio di Friedman. Diceva semplicemente se cayó, è crollato.
Dal completamento dell’osservatorio, nel 1963, centinaia di ricercatori provenienti da tutto il mondo si erano avvicendati lì ogni anno per puntare il radiotelescopio verso il cielo e scoprire i segreti dell’universo. L’osservatorio aveva avuto un ruolo importante in settori come la radioastronomia, la planetologia, la climatologia e la scienza dell’atmosfera, ma anche nella ricerca di esopianeti e nello studio di asteroidi vicini alla Terra che, se entrassero in collisione con il nostro pianeta, potrebbero mettere fine alla vita come la conosciamo. C’erano perfino biologi che studiavano come si sviluppa la vita vegetale alla luce fioca sotto il piatto poroso del telescopio.
Monzón, insieme a migliaia di altri scienziati e appassionati di radioastronomia per i quali Arecibo aveva un significato speciale, era in allerta da settimane: ad agosto e poi a novembre due cavi avevano ceduto. Anche se il telescopio era sopravvissuto al passaggio dell’uragano Maria nel 2017 apparentemente senza gravi danni, i terremoti che erano seguiti forse avevano indebolito alcuni suoi componenti, che a loro volta avevano alle spalle decenni di usura. Per molti aspetti era una morte annunciata. Nonostante questo, quando alla fine l’inevitabile è successo, Monzón era sbalordita.
A Puerto Rico Monzón è una figura molto amata e rispettata, perché a volte i meteorologi si trovano in luoghi in cui essere informati su fenomeni estremi può essere una questione di vita o di morte. Aveva seguito l’uragano Maria e le sue conseguenze strazianti, e decine di fenomeni minori ma comunque pericolosi, oltre ai conseguenti smottamenti o inondazioni. Una volta aveva fatto una diretta Facebook durante un terremoto di magnitudo 6,4. Tuttavia la fine di Arecibo è stata in qualche modo più dolorosa e personale: “È stato devastante”, dice. “Uno dei momenti più difficili della mia vita”. Arecibo, aggiunge, “era un luogo d’incontro per tutti quelli che amano la scienza su quest’isola e per tutti noi che amiamo Puerto Rico”.
Per più di cinquant’anni quello di Arecibo è stato il più grande telescopio a singola apertura del mondo. La sua reputazione si basava su scoperte grandi come le sue dimensioni: dall’osservatorio è stata rilevata per la prima volta la presenza di ghiaccio sui poli di Mercurio, è stata calcolata la durata della rotazione di quel pianeta e mappata la superficie di Venere. La prima pulsar binaria, usata in seguito per testare la teoria della relatività di Albert Einstein, è stata scoperta dagli astronomi che lavoravano ad Arecibo (per questo motivo vinsero il premio Nobel nel 1993).

Nel 1974 un gruppo di lavoro (di cui faceva parte l’astronomo statunitense Carl Sagan) guidato da Frank Drake, un astronomo della Cornell university, creò il messaggio di Arecibo, una trasmissione radio diretta a un ammasso di stelle a più di 25mila anni luce di distanza. Il messaggio era stato pensato per celebrare il progresso tecnologico umano e, presumibilmente, per essere decodificato e letto dagli extraterrestri. Non tutti i radiotelescopi possono sia ricevere sia trasmettere: questo è un altro motivo per cui Arecibo era speciale. Il messaggio stesso – una serie di bit e quadrati contenenti i numeri da uno a dieci, i numeri atomici di alcuni elementi e il grafico di una doppia elica, insieme ad altre formule scientifiche – era per lo più simbolico, doveva essere un omaggio all’aggiornamento delle capacità del telescopio, ma colpì comunque l’immaginazione del pubblico. In teoria, se mai una qualsiasi forma di vita aliena avesse risposto, ad Arecibo noi terrestri avremmo potuto interpretare quella risposta.
Ogni anno l’osservatorio accoglieva più di 80mila visitatori, tra cui turisti da tutto il mondo, e ventimila studenti portoricani, che lì avevano il loro primo contatto con il cosmo. Nel film del 1995 GoldenEye c’è un’assurda scena di combattimento girata ad Arecibo, in cui James Bond, interpretato da Pierce Brosnan, uccide un malvagio facendolo cadere dalla piattaforma sospesa. Due anni dopo, nel film Contact Jodie Foster e Matthew McConaughey si baciano sotto un cielo stellato con la cupola sullo sfondo. “Se uno dovesse parlare a qualcuno di Puerto Rico”, mi ha detto Monzón, “potrebbe dire: ‘Abbiamo il radiotelescopio più grande del mondo’. E l’altro commenterebbe: ‘Ah, certo, Arecibo’”.
La mattina del 1 dicembre, negli studi della Wapa, Monzón ha detto ai tecnici che doveva andare in onda subito. Pochi minuti dopo era in piedi davanti a una mappa meteorologica, con la voce spezzata: “Amici, con il cuore che trema, devo informarvi che l’osservatorio è crollato”. Si è morsa il labbro e ha scosso la testa. “Abbiamo cercato di salvarlo come potevamo. E sapevamo che questo poteva succedere”. Si è interrotta, ha guardato il telefono che aveva in mano e ha balbettato che il direttore dell’osservatorio la stava chiamando. Ha risposto in diretta e, per un momento imbarazzante, è uscita perfino dall’inquadratura delle telecamere. Era tutto vero, ha detto Monzón al suo pubblico quando è tornata. L’osservatorio non c’era più.
Impresa straordinaria
La costruzione di un radiotelescopio di livello mondiale a Puerto Rico fu in qualche modo un incidente della guerra fredda. Dopo che l’Unione Sovietica lanciò in orbita il satellite Sputnik, nel 1957, Washington aveva molti fondi e grandi idee che avrebbero potuto mettere in risalto la potenza e la tecnologia statunitensi, in particolare nello spazio. Fu allora che entrò in scena un ingegnere elettronico della Cornell university, William Gordon, un veterano della seconda guerra mondiale sulla quarantina che voleva usare le onde radio per studiare l’alta atmosfera. Per farlo servivano un trasmettitore gigantesco e una parabola enorme. Non era mai stato costruito niente di simile.

La radioastronomia era ancora agli inizi e la Cornell fu una delle prime università degli Stati Uniti a proporne lo studio. L’Agenzia per i progetti di ricerca avanzata di difesa (Darpa), creata dal presidente Eisenhower, finanziò l’iniziativa, sperando di poter intercettare eventuali missili balistici intercontinentali che viaggiavano nell’alta atmosfera. Per essere utile agli studi planetari, il telescopio doveva essere situato ai tropici, sopra cui passano i pianeti nell’arco della loro orbita. Costruirlo a Cuba, proprio durante la rivoluzione castrista, era impensabile. Le Hawaii e le Filippine erano troppo lontane. Puerto Rico, che aveva ufficializzato i suoi rapporti coloniali con gli Stati Uniti meno di un decennio prima, era una scelta plausibile, facilitata dal fatto che un dottorando nato lì studiava alla Cornell. Il resto, come si dice, è storia. Gordon, che è morto nel 2010, descrisse il carattere alquanto arbitrario del processo di selezione del sito in un’intervista del 1978: “Il nostro ingegnere civile ha esaminato le fotografie aeree di Puerto Rico e ha detto: ‘Ci sono alcuni avvallamenti nel terreno all’incirca delle dimensioni di cui avete bisogno’. Li abbiamo osservati e abbiamo detto: ‘Alcuni sono troppo vicini a una città o a un centro abitato’. Molto rapidamente li abbiamo ridotti a tre, poi io e lui siamo andati a ispezionarli e ne abbiamo scelto uno”.
Quello che scelsero era sulle colline a mezz’ora di auto da Arecibo, una città di circa 70mila abitanti con un porto e una vivace piazza centrale. Negli anni sessanta era un centro di produzione del rum, la sede di una delle più grandi cattedrali dell’isola e aveva anche tre cinema. Ogni anno, durante il carnevale, la gente di tutta l’isola andava ad Arecibo per ballare al ritmo delle bande di steel drum, i tamburi ricavati dai fusti metallici. Sulla piazza c’era un albergo con cinquanta stanze, dove a volte alloggiavano gli scienziati e i tecnici in visita, e dove ogni domenica si potevano trovare il New York Times e il Daily News. Gordon e la sua squadra si trasferirono ad Arecibo nel 1960 e si sistemarono in un piccolo ufficio dietro la cattedrale. Vari altri scienziati provenienti dal continente e le loro famiglie, insieme ad alcuni ingegneri cubani, si stabilirono a Radioville, una località balneare circa tre chilometri a ovest della città, chiamata così perché ospitava una stazione radio, non per l’osservatorio, che all’epoca era ancora solo un’idea.
Le dimensioni sono sempre state il punto forte dell’osservatorio. A quel tempo il più grande radiotelescopio esistente era vicino a Manchester, nel Regno Unito, e aveva un diametro di circa 76 metri. Il diametro del telescopio di Arecibo sarebbe stato di trecento metri e avrebbe fatto impallidire ogni altro strumento simile già in uso. Le colline calcaree nel nord di Puerto Rico erano piene di doline naturali che rendevano più facile scavare e costruire, anche se non era affatto facile realizzare un piatto sferico con un’area di circa diciotto campi da calcio. La curva della parabola doveva essere precisa per poter raccogliere le onde radio all’interno della piattaforma mobile che ospitava gli strumenti.
Secondo l’astronomo Don Campbell, che arrivò ad Arecibo nel 1965 e oggi lavora a una storia della struttura, la costruzione dell’osservatorio, che costò circa nove milioni di dollari (più di 70 milioni attuali), fu un’impresa straordinaria.
La passerella originale per raggiungere la piattaforma sospesa era fatta di doghe di legno. Non c’era comunicazione telefonica dall’osservatorio alla città, ma c’era un collegamento radio a un telefono che squillava al quarto piano dello Space sciences building della Cornell. All’epoca per andare da San Juan all’osservatorio ci si potevano impiegare due o tre ore, anche di più durante la stagione del raccolto, quando i camion carichi di canna da zucchero intasavano le strade strette.
Ogni anno l’osservatorio accoglieva 80mila visitatori e ventimila studenti, che lì avevano il loro primo contatto con il cosmo
Joanna Rankin, una radioastronoma dell’università del Vermont che fece le sue prime osservazioni ad Arecibo nel 1969, mi ha detto che il terreno intorno al sito era così ripido e ostile che il solo fatto che l’avessero costruito le sembrava miracoloso. “Andare lassù di notte era come trovarsi su un’isola nel cielo”, dice. “Era così grande e al tempo stesso così delicato”. In quei primi tempi la struttura attirava le persone più avventurose, dice Campbell. Comunque, era una bella vita per gli scienziati: lavoravano duramente tutta la settimana e andavano in spiaggia la domenica. L’Arecibo country club, che non aveva un campo da golf e la cui piscina era il più delle volte asciutta, organizzava grandi feste a cui gli scienziati erano spesso invitati. E naturalmente l’opportunità di lavorare con un telescopio di quella grandezza era unica.
I cacciatori di pianeti e gli studiosi dell’atmosfera usavano Arecibo per lanciare un segnale radio verso un obiettivo – un pianeta, un asteroide, la ionosfera – e deducevano informazioni dall’eco di ritorno. E i radioastronomi ascoltavano per lo più le onde radio presenti in natura che avevano origine nello spazio, quello che un tempo si chiamava “rumore cosmico”. Poiché la radioastronomia non ha bisogno del buio, Arecibo funzionava a tutte le ore del giorno e della notte. Molti scienziati con cui ho parlato mi hanno descritto una comunità affiatata: colleghi che si occupavano di discipline diverse si rallegravano a vicenda delle loro scoperte. Quando nel 1993 arrivò la notizia che i fisici statunitensi Joseph Taylor e Russell Hulse avevano vinto il Nobel, fu come se avessero premiato tutti gli scienziati di Arecibo. Quelli che lo seppero mentre facevano colazione alla mensa si misero a ballare di gioia intorno al tavolo. In seguito Taylor fece realizzare una replica del premio per il centro visitatori dell’osservatorio.
Gli strumenti e le attrezzature di Arecibo venivano reinventati continuamente. Nel 1974 la rete metallica che in origine formava la superficie sferica della parabola fu sostituita da circa 40mila pannelli di alluminio perforato, che permettevano di osservare a frequenze più alte. L’aggiornamento più grande fu fatto negli anni novanta, con la costruzione di una cupola gregoriana da 25 milioni di dollari per ospitare una strumentazione più sensibile, che però aggiungeva trecento tonnellate di peso alla piattaforma.
Secondo Campbell, quando Gordon (che intanto era andato in pensione) visitò l’osservatorio disse scherzando che quell’aggiunta aveva rovinato la simmetria del suo telescopio.

Con il morale a terra
Per Arecibo i problemi sono cominciati a metà degli anni duemila, quando la National science foundation (Nsf), che era la proprietaria del sito e lo finanziava con circa 12 milioni di dollari all’anno, convocò un gruppo di astronomi per rivedere la sua partecipazione. Dato che aveva già stanziato molti soldi e c’erano diversi grandi investimenti in corso in nuovi telescopi, la commissione raccomandò un taglio di diversi milioni al bilancio per l’astronomia di Arecibo, da spalmare in vari anni. La posizione dell’Nsf era netta e definitiva: se entro il 2011 non si trovava qualcuno che contribuisse a coprire i costi di manutenzione, l’osservatorio doveva chiudere.
Secondo Daniel Altschuler, che all’epoca era direttore delle operazioni all’osservatorio, il rapporto della commissione ebbe un effetto catastrofico sul morale di tutti. Ma l’ancora di salvezza arrivò dal congresso di Washington, che chiese alla Nasa (l’agenzia governativa statunitense responsabile della ricerca aerospaziale) di tracciare almeno il 90 per cento degli oggetti vicini alla Terra con un diametro maggiore di 150 metri, quelli cioè che avrebbero potuto spazzare via intere città. Il potente trasmettitore di Arecibo era in grado d’inviare onde radio sugli asteroidi e misurare le loro dimensioni, il tipo di superficie, la velocità, l’orbita e la rotazione in modo sorprendentemente dettagliato. Questo permise di aggiungere alcuni milioni di dollari al bilancio annuale. In pratica fu una sospensione del provvedimento, che alleggerì la pressione senza dare una soluzione a lungo termine.
Scott Ransom, un astronomo del National radio astronomy observatory di Charlottesville, in Virginia, ha fatto osservazioni da Arecibo per vent’anni. Mi ha detto che c’era sempre un certo senso di precarietà intorno alla struttura. “Il prossimo uragano, il prossimo terremoto, la prossima crisi economica, la prossima svolta politica sarebbero stati la fine per Arecibo”, dice.
Bob Kerr, che diventò direttore quattro anni dopo che Altschuler se n’era andato, afferma che l’osservatorio era diventato “l’emblema della cosiddetta programmazione del ciclo di vita”: l’idea secondo cui, visto che i fondi sono limitati, quando nascono nuove strutture si smantellano quelle vecchie. Anche oggi Kerr trova sbagliata questa mentalità. Non solo gli scienziati di Arecibo producevano ancora ricerche all’avanguardia, ma l’osservatorio svolgeva anche un ruolo importante nel raggiungimento di molti degli obiettivi dichiarati dell’Nsf, come democratizzare l’accesso alla ricerca e incoraggiare i giovani, soprattutto i portoricani e i latinoamericani in generale, a scegliere gli studi scientifici. “L’Nsf avrebbe dovuto considerare prioritari questi elementi”, dice Kerr. “Non ho mai capito perché abbia rinunciato a quel progetto”. Nel 2015 Kerr si è dimesso. “Molti di quelli che lavoravano lì temevano di dover essere loro a spegnere le luci”, mi ha detto.
Molti scienziati mi hanno descritto una comunità affiatata: tutti gli scienziati si rallegravano a vicenda delle loro scoperte
Nel 2018, meno di un anno dopo l’uragano Maria, un gruppo guidato dall’University of central Florida (Ucf) ha assunto la gestione dell’osservatorio. Ray Lugo, il direttore del Florida space institute dell’Ucf con alle spalle una lunga carriera alla Nasa, mi ha detto che quando la Cornell gestiva l’osservatorio i contributi dell’Nsf erano di decine di milioni di dollari all’anno. L’Ucf non ha goduto della stessa generosità. Entro il 2023, ultimo anno di contratto, il contributo dell’Nsf dovrebbe essere ridotto a soli due milioni di dollari. “Stanno cercando di uscirne con eleganza”, dice Lugo. L’Ucf ha proposto all’Nsf di trasferire i diritti di proprietà del sito alla Florida, di conseguenza una parte importante della battaglia per i fondi a sostegno dell’osservatorio si svolgerebbe a Tallahassee, la capitale dello stato, non a Washington. Ma la trattativa si è fermata, secondo Lugo, a causa dell’opposizione di José E. Serrano, un rappresentante dello stato di New York al congresso che da allora è andato in pensione. Per Serrano, che è nato a Puerto Rico, il sostegno ad Arecibo era un impegno del governo federale verso i portoricani. “Non volevo lasciare che l’Nsf se ne lavasse le mani”, dice. Nel frattempo sono stati valutati i danni dell’uragano Maria. Tutti hanno concordato nel dire che il telescopio non aveva subìto gravi danni, era stato una specie di miracolo, considerando la violenza della tormenta tropicale. È meno chiaro quali possano essere state le conseguenze delle migliaia di terremoti che hanno scosso l’isola all’inizio del 2020. In ogni caso, la manutenzione e la riparazione dello strumento, date le sue dimensioni e la sua complessità, erano sempre state piuttosto approssimative.
“Le parti di ricambio non si trovano facilmente”, dice Luisa Fernanda Zambrano, una ricercatrice che ha lavorato ad Arecibo per sette anni. “Se qualcosa si rompeva, le riparazioni erano sempre un po’ improvvisate”.
Il primo cavo si è allentato il 10 agosto 2020, provocando uno squarcio di trenta metri nella parabola e danneggiando circa 250 pannelli. Era preoccupante, ma all’epoca non sembrava rappresentare una minaccia esistenziale per l’osservatorio stesso e l’Nsf ha autorizzato l’acquisto dei pezzi di ricambio. Poi, il 6 novembre, mentre i tecnici stavano ancora studiando come eseguire le riparazioni, si è rotto un secondo cavo. A quel punto non si poteva tornare indietro. Il 19 novembre l’Nsf ha dichiarato che il telescopio di Arecibo sarebbe stato disattivato, in attesa di un’analisi del modo più sicuro per smontarlo. Il problema è stato superato meno di due settimane dopo, quando hanno ceduto gli altri cavi. L’osservatorio, che era stato il simbolo degli investimenti statunitensi sull’isola per quasi sessant’anni, non c’era più. Tutto quello che rimaneva, per usare le parole di Lugo, era “un mucchio di pannelli di alluminio sul fondo di una dolina”.
Un senso di urgenza
Pochi giorni dopo il crollo, la Nsf ha diffuso un video del momento in cui il telescopio è sprofondato, ripreso da un drone che volava sopra la cupola. Il video silenzioso mostra i cavi che cominciano a cedere uno alla volta, poi diversi fili che si spezzano contemporaneamente, fino a quando la telecamera si gira all’improvviso per riprendere la parabola che crolla. Un altro video, ripreso dal basso, mostra la scena con il sonoro: si sente un rombo minaccioso, poi i cavi cedono e la piattaforma comincia a oscillare dietro gli alberi fino a quando non scompare dallo schermo e le torri si spezzano come fiammiferi. Chris Salter, un astronomo che ha lavorato ad Arecibo per 26 anni, mi ha detto che non ha ancora avuto il coraggio di guardare i video pubblicati online. “È come perdere una persona di famiglia”, dice. Sui social network centinaia di scienziati e studenti portoricani hanno pubblicato tributi all’osservatorio, con gli hashtag #WhatAreciboMeansToMe e #SaveTheAO. Scorrerli significava prendere coscienza delle dimensioni sconcertanti di quella perdita. Secondo gli scienziati di Arecibo, i dati raccolti dall’osservatorio hanno fornito materiale per 3.500 pubblicazioni scientifiche e quasi quattrocento tesi per master e dottorati di ricerca. Più di venti asteroidi sono stati studiati dall’osservatorio e hanno preso il nome da scienziati e tecnici di Arecibo.
Abel Méndez, un astronomo dell’Università di Puerto Rico ad Arecibo, mi ha detto che la presenza stessa dell’osservatorio lo aveva aiutato a superare la sindrome dell’impostore che altrimenti avrebbe potuto colpirlo, visto che era un ragazzo della classe operaia che frequentava una scuola pubblica e sognava di diventare uno scienziato. Aveva visto il telescopio per la prima volta quando aveva 11 anni. All’epoca non c’era un centro visitatori, quindi aveva chiamato da un telefono pubblico di fronte alla sua scuola e aveva chiesto se poteva visitarlo. “Mi portarono sotto il piatto”, racconta Méndez. “Sapere che a Puerto Rico c’era un posto così mi ha dato grande fiducia”.
Quando si è rotto il secondo cavo, un gruppo di astronomi da tutto il mondo ha cominciato a tenere veglie quotidiane su Zoom
Il crollo è avvenuto in un momento particolarmente difficile per Arecibo. Ogni dieci anni gli scienziati delle varie branche dell’astronomia redigono un documento, una sorta di piano d’azione per il successivo decennio di ricerca, stabilendo le priorità per l’acquisto di nuovi strumenti e i campi d’indagine più promettenti per poter ottenere i finanziamenti dell’Nsf. Prima del crollo, la squadra dell’Ucf e i suoi collaboratori avevano scritto più di 25 libri bianchi sostenendo l’importanza dell’osservatorio. Fino a dicembre erano stati cautamente ottimisti, ma purtroppo il rapporto decennale della commissione era stato quasi completato quando il telescopio è crollato. Non c’era alcuna indicazione che potesse essere modificato per tenere conto di quello che era successo ad Arecibo.
Quando si è rotto il secondo cavo, un gruppo di astronomi di tutto il mondo ha cominciato a tenere veglie quotidiane su Zoom. Dopo il crollo l’obiettivo di quegli incontri si è allargato per includere i piani per la ricostruzione. C’era un senso di urgenza, un desiderio di approfittare dell’ondata di pubblico cordoglio. Alcuni scienziati, guidati dal direttore della sezione radioastronomia di Arecibo, D. Anish Roshi, si sono incontrati fino a dicembre e gennaio. Quest’anno, all’inizio di febbraio hanno pubblicato un’altra relazione con il progetto di quello che hanno chiamato Next generation Arecibo telescope.
Sopraffatti dall’emozione
Il nuovo telescopio, la cui costruzione costerebbe circa 450 milioni di dollari, offrirebbe una copertura del cielo cinque volte superiore rispetto al precedente, con più del doppio della sensibilità nella ricezione di segnali radio e quattro volte la potenza di trasmissione. Circa duemila scienziati e appassionati di più di sessanta paesi hanno approvato il libro bianco. In seguito a una mia richiesta, un portavoce dell’Nsf mi ha scritto che la fondazione ha ricevuto il documento e sta ancora “raccogliendo input”. In un rapporto pubblicato all’inizio di marzo, la fondazione ha dichiarato che sta programmando un seminario per la prossima estate in modo da raccogliere proposte per il futuro dell’osservatorio.
Molti portoricani, però, temono che Arecibo diventerà l’ennesimo esempio dell’abbandono e dell’incuria che hanno caratterizzato molti aspetti della vita dell’isola. Sono passati decenni da quando Puerto Rico è stato il prospero avamposto tropicale del capitalismo statunitense, da contrapporre alla Cuba socialista. Gli anni più brillanti della sua economia hanno coinciso con l’età dell’oro di Arecibo, quando l’osservatorio era in fermento e la scienza era al culmine della sua rivoluzione. Le esenzioni fiscali che hanno alimentato l’economia di Puerto Rico sono state gradualmente cancellate l’anno prima che la Nsf cominciasse a minacciare di chiudere l’osservatorio. L’isola è stata in recessione per la maggior parte degli ultimi quindici anni, mentre il suo debito è salito a più di 72 miliardi di dollari, una cifra così assurda che nel 2015 il governatore dell’epoca, Alejandro García Padilla, disse che era impossibile ripagarlo. Anche prima dell’uragano Maria, la popolazione si era ridotta di più del 10 per cento dal suo picco, a metà degli anni duemila. Dopo l’uragano circa 130mila persone si sono trasferite sul continente. E la terra continua a tremare: nell’isola ci sono centinaia di scosse ogni mese.
“Ne abbiamo passate tante”, mi ha detto Monzón. “Ci sono persone a cui non piace la parola ‘resilienza’, eppure è proprio questo che ci definisce”. Ma il crollo dell’osservatorio di Arecibo ha provocato una dolorosa ricaduta.
A metà febbraio Lugo mi ha detto che gli operai si stavano preparando a rimuovere i detriti dalla cupola per estrarla dal calcare in cui si era incastrata crollando. Una parte della pulizia, che secondo le previsioni costerà fra i 30 e i 50 milioni di dollari, era già in corso e le circa cento persone che ci lavoravano soffrivano molto. Lugo mi ha detto che in più di un’occasione aveva incontrato un dipendente in un angolo, da solo e sopraffatto dall’emozione. Lugo, che è di origine portoricana, ha capito come si sentivano perché anche lui provava le stesse emozioni.
In quel periodo Luisa Fernanda Zambrano faceva parte di un gruppo incaricato di recuperare dei detriti, ma per settimane ha evitato di guardare direttamente i danni. Quando lo ha fatto, all’inizio di febbraio, è scoppiata a piangere. Tra le rovine la sua squadra ha trovato due klystron – tubi a vuoto che amplificano le frequenze radio – sopravvissuti allo schianto quasi intatti. Erano stati installati poco prima della rottura del primo cavo e non erano mai stati usati. Zambrano si è chiesta se potessero essere salvati, non per essere usati, ma per diventare parte di una mostra su quello che una volta fu Arecibo. ◆ bt
Daniel Alarcón è uno scrittore peruviano che vive negli Stati Unti. È tra i fondatori di Radio ambulante, un podcast sull’America Latina. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Di notte camminiamo in tondo (Einaudi 2016).
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Questo articolo è uscito sul numero 1420 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati