I primi uomini bianchi a mettere gli occhi sulla Yosemite valley furono gli esploratori di una milizia californiana chiamata battaglione Mariposa. Era il 1851 e il gruppo, composto in gran parte da minatori, stava perlustrando il versante occidentale della Sierra Nevada quando capitò per caso nella valle di granito che i popoli nativi chiamavano da secoli “il posto di una bocca larga”. Tra i miliziani c’era il medico Lafayette Bunnell, che rimase senza parole: “Nessuno tranne chi ha visitato questa meravigliosa valle può anche solo immaginare le sensazioni che provai di fronte alla sua vista”, avrebbe scritto più tardi. Molti di quelli che hanno seguito le orme di Bunnell negli ultimi 170 anni, costeggiando a piedi il fiume Merced o ammirando il massiccio sacro del Capitan, hanno provato la stessa sensazione di trovarsi al cospetto del divino. In realtà il battaglione Mariposa era andato nella valle per uccidere i nativi. Le tribù miwok di Yosemite, come molti popoli indigeni della California, erano un ostacolo per le attività estrattive della corsa all’oro. E, nonostante il suo amore per la natura, Bunnell mostrò tutto il suo disprezzo per quei “bambini troppo cresciuti e maligni”:

Qualsiasi tentativo di governarli o civilizzarli senza la forza per ridurli all’ubbidienza sarà guardato dai barbari con scherno. Il selvaggio è per natura vanesio, crudele e arrogante. Si vanta dei suoi omicidi, delle sue rapine e delle torture che infligge alle sue vittime allo stesso modo in cui racconta le sue imprese valorose in battaglia.

Quando i circa duecento uomini del battaglione marciarono su Yosemite armati di fucili, non trovarono i miwok sul piede di guerra. I componenti della tribù si nascosero, e i miliziani decisero di affamarli per costringerli alla resa, dando fuoco alle loro riserve di viveri e impregnando l’aria dell’odore acre delle ghiande bruciate. In una giornata particolarmente cruenta, alcuni di loro entrarono in un villaggio fuori della valle cogliendo i miwok di sorpresa. Incendiarono le tende e spararono indiscriminatamente agli abitanti in fuga, uccidendone ventitré. Al termine della spedizione molti dei miwok che erano sopravvissuti furono cacciati da Yosemite, che era stata la loro patria per millenni, e confinati nelle riserve.

Trentanove anni più tardi Yosemite diventò il quinto parco nazionale degli Stati Uniti (il primo era stato Yellowstone, nel 1872). Fin dall’inizio i parchi sono stati concepiti come cattedrali naturali, paesaggi protetti dove le persone potessero ammirare il sublime. Ancora oggi offrono agli statunitensi l’emozione di rivolgere lo sguardo verso un mondo senza esseri umani e senza tecnologia. Molti li visitano cercando qualcosa che si trova al di fuori o al di là di se stessi, per provare un senso impressionante di grandezza, per contemplare quanto siamo piccoli o effimeri. È per questi motivi che John Muir, il padre del conservazionismo moderno, si batté per la creazione dei parchi.

Leader nativi in visita al presidente Ulysses S. Grant nel 1875 - Bettmann/Getty Images
Leader nativi in visita al presidente Ulysses S. Grant nel 1875 (Bettmann/Getty Images)

Più di un secolo fa, sulle pagine dell’Atlantic, Muir descrisse l’intero continente americano come un giardino incontaminato, “privilegiato rispetto a tutti gli altri parchi e giardini selvatici del globo”. In realtà il continente nordamericano non è un posto incontaminato da almeno quindicimila anni: molti paesaggi su cui un giorno sarebbero nati i parchi nazionali sono stati plasmati per millenni dai popoli nativi. Quando sbarcarono sulla costa orientale, i coloni bianchi trovarono foreste rigogliose perché i nativi le avevano incendiate strategicamente per aumentare le quantità di foraggio per gli alci, i cervi e i caribù dei boschi. Anche il paesaggio sublime della valle di Yosemite era stato curato dai popoli nativi; le ghiande che sfamavano i miwok venivano dalle querce nere coltivate per anni dalla tribù. L’idea di un paesaggio completamente vergine – un Eden incontaminato dagli umani e libero dal peccato – è un’illusione.

Si sente spesso dire che i parchi nazionali sono “la migliore idea dell’America”, e ci sono molti motivi per essere d’accordo. Sono luoghi magnifici, che vanno venerati e tutelati, come vi diranno per primi i nativi americani come me. Ma tutti quei parchi sono stati creati su una terra che un tempo era di noi nativi, da cui siamo stati allontanati con la forza, a volte da un esercito invasore, altre volte dopo essere stati costetti a firmare un trattato. I parchi nazionali e le riserve per i nativi sono nati nello stesso periodo. Commentando questo fatto Alce Nero, la guida spirituale degli oglala lakota, osservava amaramente che gli Stati Uniti “hanno fatto piccole isole per noi e altre piccole isole per i quadrupedi, e queste isole stanno diventando sempre più piccole”.

Gran parte dei negoziati che permisero la creazione di queste isole furono condotti in inglese (a svantaggio dei nativi), quando le tribù rischiavano di essere annientate o erano indebolite dalle malattie o dalla fame. I trattati nati da quei negoziati sono, secondo la costituzione degli Stati Uniti, la “legge suprema della Terra”. Eppure, con tutta la loro crudeltà, pochi di questi trattati sono stati onorati. Le rivendicazioni e i diritti dei nativi sono stati o ignorati o calpestati.

Capo Giuseppe, leader dei nasi forati, intorno al 1900 - De Lancey Gill, Library of Congress
Capo Giuseppe, leader dei nasi forati, intorno al 1900 (De Lancey Gill, Library of Congress)

Quella degli “indiani” d’America è la storia di una perdita immane. Secondo alcune stime, al momento dei primi contatti con gli uomini bianchi gli indigeni che abitavano in quelli che un giorno sarebbero diventati gli Stati Uniti erano tra i cinque e i quindici milioni. Nel 1890, quando il governo statunitense cominciò a creare i parchi nazionali, i nativi ancora in vita erano 250mila. Nel 1491 le popolazioni native controllavano tutti i circa 9,7 milioni di chilometri quadrati che sarebbero poi diventati gli Stati Uniti. Oggi ne controlliamo circa 226mila, grosso modo il 2 per cento del territorio.Eppure non ce ne siamo andati, e alcuni di noi sono rimasti testardamente vicini ai parchi, incapaci di separarsene. Nel parco nazionale del Grand canyon vive gran parte della tribù havasupai. Il monumento nazionale di Pipe Spring si trova all’interno dei 488 chilometri quadrati della riserva di Kaibab paiute, nel nord dell’Arizona. Molti altri siti confinano con comunità native. Ma anche se i parchi sono vicini a noi – o ci appartengono – non sono nostri.

Viviamo in un’epoca in cui la storia viene rivisitata, in cui sempre più spesso le persone riconoscono che i peccati del passato si riflettono ancora sul presente. Per i nativi americani, a cui è stata rubata la terra, non può esserci risarcimento migliore della restituzione della terra. E per noi nessuna terra è importante – a livello spirituale – come quella dei parchi nazionali. Devono esserci restituiti. I nativi devono tornare a curare, proteggere e preservare questi giardini prediletti.

A luglio del 2020 sono partito per una sorta di tour dei parchi nazionali statunitensi. Volevo guardarli con occhi nuovi per immaginare un futuro diverso per questi spazi. Avevo in programma di visitarli tutti – il Grand canyon, Yosemite, il parco nazionale delle Great Smoky mountains, – ma poi è arrivata la pandemia. Alcuni parchi erano stati completamente chiusi; in altri (come Yellowstone) erano stati chiusi i campeggi, i centri visitatori e i musei. Partendo in auto dal Minnesota, ho attraversato il North Dakota, il Montana, il Wyoming, l’Idaho e l’Oregon fino alla dorsale della California. Poi ho fatto inversione e sono tornato indietro. Ho visitato il parco nazionale Theodore Roosevelt, Little Bighorn, Yellowstone, il Grand Teton, la foresta nazionale di Mount Hood, il Kings canyon, la Death valley e Joshua tree.

Geronimo, capo apache - The Gerhard Sisters, Library of Congress
Geronimo, capo apache (The Gerhard Sisters, Library of Congress)

Le strade erano più vuote e silenziose del solito, anche se i cieli spesso erano coperti dalla caligine degli incendi sulla costa ovest. Ho dormito nei campeggi, in tenda nei cortili delle case degli amici e, qualche volta, negli alberghi o nei motel. Ho cucinato sul cofano dell’auto e su tavolini da picnic, sotto il sole cocente o con la pioggia torrenziale. Ho scacciato via procioni e scoiattoli.

Tra tutti i posti che ho visitato, Yellowstone mi è sembrato quello che più di qualsiasi altro rappresenta la varietà degli Stati Uniti. Ho visto alci e bisonti. Ho visto una quantità di camper e roulotte che basterebbe a ospitare buona parte dei senzatetto del paese. Ho visto acqua di lago, acqua di fiume, acqua di palude e acqua spumosa di cascata. Ho visto Tony Hawk fermato da due ranger del parco mentre scendeva a bordo del suo skate­board dai tornanti sopra le Mammoth hot springs con un falco che gli svolazzava intorno. Ho visto modelle di Instagram posare in bikini davanti a bisonti indifferenti. Ho visto bande di motociclisti (che sembrano amare particolarmente i parchi) e bande di ragazzini (che sembrano non amare niente). Ho visto turisti, con e senza mascherina. Ho visto cartelli e schermi. Ho scoperto che a Yellowstone si possono imparare tantissime cose sulla natura, e forse ancora di più sulla cultura statunitense. Ma anche che le descrizioni ufficiali del parco restituiscono – nella migliore delle ipotesi – un’idea limitata della storia dei popoli che ci hanno vissuto.

Alberi pietrificati

Il parco nazionale di Yellowstone è stato creato circa cento anni dopo la nascita del paese. Una spedizione del 1806, parte del corpo di esplorazione di Lewis e Clark, passò a nord di dove si trova il parco oggi. Più tardi John Colter, che faceva parte del gruppo, entrò nel commercio di pellicce e diventò, a quanto si dice, il primo non nativo ad ammirare quei paesaggi. Naturalmente i popoli nativi abitavano questi luoghi già da migliaia di anni, e quando Colter cominciò a piazzare trappole nella zona Yellowstone era ancora la loro casa. Colter attraversò l’area di Yellowstone e il Teton range all’inizio dell’ottocento, in cerca di animali da pelliccia. Dovunque andasse si ritrovava coinvolto in sanguinosi conflitti con i nativi, culminati nello scontro con i piedi neri, in cui rimase ferito. Si nascose dalla tribù sotto un cumulo di detriti di legno e poi si mise in salvo proseguendo a piedi per una settimana. Per i successivi sessant’anni altri cacciatori avrebbero descritto il paesaggio del futuro Yellowstone come una zona di geyser di fango, pozze acide e alberi pietrificati.

La firma di un trattato che tolse 600 chilometri quadrati di terreno ai nativi in North Dakota - William Chaplis, Ap/Lapresse
La firma di un trattato che tolse 600 chilometri quadrati di terreno ai nativi in North Dakota (William Chaplis, Ap/Lapresse)

La prima spedizione ufficiale esplorò la regione solo nel 1869, confermando le ricostruzioni degli abitanti delle montagne. Da quel momento gli sviluppi furono rapidissimi. Nel 1871 il geologo Ferdinand V. Hayden fu mandato dal governo a fare una ricognizione sul campo a Yellowstone, e produsse una serie di relazioni complete di disegni e fotografie professionali. Sulla base di quei rapporti il presidente Ulysses S. Grant promulgò lo Yellowstone act del 1872: per la prima volta un paesaggio naturale veniva definito “riservato e sottratto all’insediamento, all’occupazione o alla vendita e dedicato e distinto come parco pubblico o luogo di piacere per il beneficio e il godimento del popolo”.

La dichiarazione di Grant trasformò in intrusi e trasgressori gli shoshone, i bannock e altre popolazioni native che abitavano nella regione da secoli. Le tribù se ne andarono con la garanzia che avrebbero conservato i diritti di caccia nel parco, come sancito da un trattato del 1868. Ma prima della fine del secolo il governo si rimangiò la promessa. Questa tattica di rubare la terra infrangendo i trattati diventò un modello, soprattutto quando c’erano di mezzo i parchi.

Quando fu creato Yellowstone, tutto intorno ai suoi confini infuriavano le plains wars, i conflitti tra l’esercito degli Stati Uniti e i nativi. Era come se il governo si fosse fermato a metà di un omicidio per piantare un albero nel giardino della vittima.

L’avvocato Evan Thompson - Katy Grannan, The Atlantic
L’avvocato Evan Thompson (Katy Grannan, The Atlantic)

La guerra contro i nativi dakota era scoppiata dieci anni prima, appena a est delle grandi pianure. Al termine del conflitto decine di dakota erano stati impiccati e più di 1.600 donne, bambini e anziani trasferiti in un campo di concentramento a Fort Snelling. Alla fine tutti i trattati tra i dakota orientali e il governo degli Stati Uniti furono “abrogati e annullati”.

Nel 1864 al confine opposto delle pianure, a Sand Creek, nel Territorio del Colorado, cinquecento nativi furono uccisi o mutilati per ordine del colonnello John Chivington. Nel 1868, appena quattro anni prima della creazione di Yellowstone, i nativi americani guidati da Nuvola Rossa costrinsero il governo degli Stati Uniti allo stallo e riuscirono a strappare delle concessioni. Anche quelle, però, furono successivamente annullate.

La guerra arrivò anche a Yellowstone, nel 1877. I nasi forati guidati da Capo Giuseppe erano stati cacciati dal loro territorio nella Wallowa valley (nell’attuale Oregon) ed erano partiti per una traversata di quasi 2.500 chilometri che si sarebbe conclusa appena a sud del confine con il Canada, dove si arresero all’esercito degli Stati Uniti. I nasi forati cercarono in ogni modo di evitare i bianchi lungo il tragitto, ma nell’agosto del 1877 furono attaccati sulle sponde del fiume Big Hole da un gruppo di soldati guidati dal colonnello John Gibbon. Gli uomini di Gibbon si avvicinarono al campo a piedi, all’alba, uccidendo un uomo. Poi cominciarono a sparare alle tende dei nasi forati addormentati, sterminando uomini, donne e bambini. I nativi contrattaccarono. I loro guerrieri tennero impegnati i soldati di Gibbon mentre gli altri scappavano. Si difesero strenuamente, ma persero almeno sessanta uomini.

Simarron Schildt con la figlia, della riserva dei piedi neri, in Montana, nel marzo 2021 - Katy Grannan, The Atlantic
Simarron Schildt con la figlia, della riserva dei piedi neri, in Montana, nel marzo 2021 (Katy Grannan, The Atlantic)

Ancora scossi dalle perdite, i nasi forati attraversarono Yellowstone, dove si imbatterono in un gruppo di turisti di Raders­bug, nel Montana, che si godeva il “luogo di piacere” creato a spese degli indigeni. I nasi forati li presero in ostaggio e poi li rilasciarono subito; qualche settimana dopo uccisero due turisti nel parco.

Spostandosi a est, la tribù attraversò il fiume Yellowstone in un punto ancora oggi noto come guado dei nasi forati. Una donna anziana si allontanò dalla colonna principale e si fermò in una zona chiamata Mud volcano, “vulcano di fango”. Si mise a sedere su una pelle di bisonte vicino a un geyser e cominciò a cantare. Vide avvicinarsi un esploratore dell’esercito e chiuse gli occhi. Lo scout, che si chiamava John W. Redington, avrebbe poi scritto: “La donna sembrava molto delusa quando, invece di spararle, le riempii la bottiglia dell’acqua. Mi spiegò a gesti che era stata abbandonata dalla sua gente e che voleva morire”. Dieci minuti dopo un suo collega, un nativo bannock arruolato nell’esercito degli Stati Uniti, la accontentò gettandola a terra e prendendole lo scalpo. Centoquarantatré anni dopo io e i miei figli ci siamo ritrovati nello stesso punto, chiedendoci perché nel parco ci fossero così pochi posti che raccontavano quel passato insanguinato. Da un punto di vista storico, Yellowstone è una scena del crimine.

Separare le riserve

I parchi nazionali statunitensi comprendono solo una piccola parte della terra sottratta ai nativi, ma hanno un enorme significato nella storia della nostra perdita. Molti di questi luoghi si trovano negli Stati Uniti occidentali, così come molte tribù native: dopo l’Indian removal act del 1830, infatti, tutte le tribù a est del Mississippi furono espulse e trasferite a ovest, in quello che allora era il Territorio indiano. Anche le riserve nacquero a ovest, a metà dell’ottocento. I tradimenti continuarono anche dopo che i nativi erano stati spostati con la forza.

Doug Fitzgerald nella riserva dei nativi piedi neri - Katy Grannan, The Atlantic
Doug Fitzgerald nella riserva dei nativi piedi neri (Katy Grannan, The Atlantic)

Nel 1887 il Dawes act (meglio noto come legge sulla lottizzazione generale) divise gran parte delle riserve in piccoli appezzamenti di terreno da affidare a singoli nativi, mentre la terra comune “in surplus” fu aperta ai coloni bianchi. Thomas Morgan, il commissario agli affari indiani, nel 1890 disse che l’obiettivo della politica federale del tempo era “smembrare le riserve, distruggere le relazioni tribali, incorporare gli indiani nella vita nazionale e trattarli non come nazioni, tribù o bande ma come singoli cittadini”. Questa strategia portò all’espropriazione di almeno altri 360mila chilometri quadrati, più o meno equivalente alla superficie totale dei 423 parchi nazionali degli Stati Uniti.

Dopo la creazione del parco di Yellowstone e l’allontanamento dei nativi dagli spazi del parco, lo stesso trattamento – se non peggiore – toccò ad altri popoli. I piedi neri, composti da tre bande che vivevano nel Montana nordoccidentale e nel sud dell’Alberta, consideravano da sempre le montagne Rocciose la loro patria spirituale e fisica e non si sarebbero mai immaginati di cederle al tavolo delle trattative. Negli anni ottanta e novanta dell’ottocento, tuttavia, furono costretti a scendere a patti con il governo degli Stati Uniti. Indeboliti da una serie di epidemie, dalla fame e dall’insaziabilità degli statunitensi decisi a sfruttare le loro terre per il legname e per l’estrazione dei minerali, i piedi neri fecero una concessione dopo l’altra. In alcuni casi furono costretti a rinunciare alla terra per procurarsi le risorse necessarie a sopravvivere all’inverno. Dopo un rigidissimo inverno che uccise seicento membri della tribù, i piedi neri cedettero la terra su cui poi sarebbe nato il parco nazionale dei Ghiacciai. L’accordo fu negoziato da George Bird Grinnell, naturalista e fondatore della Audubon society di New York. Grinnell si era unito alla spedizione di George Armstrong Custer in cerca di oro sulle Black hills. Il viaggio era in aperta violazione di un trattato secondo cui quella zona doveva rimanere sotto il controllo delle popolazioni native. Grinnell è stato spesso definito un “amico degli indiani”, ma una volta scrisse che i nativi avevano “la mente di un bambino nel corpo di un adulto”. Nel 1911, un anno dopo la creazione del parco nazionale dei Ghiacciai, il Montana cedette la giurisdizione del parco al governo degli Stati Uniti.

Moltissimi parchi statunitensi devono la loro esistenza a rapine come queste. L’Apostle islands national lakeshore, in Wisconsin, sorge sulle terre degli ojibwe; gli havasupai persero gran parte della loro terra quando fu istituito il parco nazionale del Grand canyon; la creazione del parco nazionale di Olympic, nello stato di Wash­ington, impedì ai membri della tribù dei quinault di esercitare i diritti sanciti dai trattati all’interno dei suoi confini; il parco nazionale delle Everglades, in Florida, fu creato sulla terra su cui vivevano i seminole. E l’elenco continua.

Robert Hall nel parco nazionale dei Ghiacciai, in Montana. Marzo 2021 - Katy Grannan, The Atlantic
Robert Hall nel parco nazionale dei Ghiacciai, in Montana. Marzo 2021 (Katy Grannan, The Atlantic)

Geronimo umiliato

Per il mio tour dei parchi nazionali parto dalla mia casa nella riserva di Leech lake, in Minnesota, sulle propaggini meridionali della foresta boreale nordamericana. La foresta è una delle più grandi distese boschive al mondo: si estende dalle isole Aleutine, nel Pacifico settentrionale, fino a Terranova, sull’oceano Atlantico, dal confine meridionale della baia di Hudson, in Canada, fino alle regioni settentrionali del Minnesota, del Wisconsin e del Michigan. Procedendo a ovest verso il parco nazionale Theodore Roosevelt, in North Dakota, la taiga cede il passo alle praterie e poi alla savana di querce mano a mano che ci si avvicina a Detroit Lakes, in Minnesota. Una volta attraversato il Red River, la foresta ormai è alle spalle. Sento la terra scendere, e guardando a ovest mi sembra di intravedere le Grandi pianure all’orizzonte.

Da bambino accompagnavo spesso mio padre durante i viaggi di lavoro, e attraversavamo molti di questi paesaggi. In auto mi raccontava la storia della nostra regione, di solito senza grande trasporto emotivo: “Piccolo Corvo scappò da questa parte per sfuggire ai militari dopo la guerra dakota del 1862”. Incontravamo molte piccole città – Hawley, Valley City, Medina, Steele – che mi sembravano tutte molte graziose. Poi mio padre rovinava tutto con i suoi racconti. La calma e l’ordine, le piccole case e i giardini ben curati, l’etica protestante che si riflette nella loro organizzazione: oggi tutte queste cose mi fanno infuriare, perché ognuna di queste città esiste a nostre spese.

Medora, in North Dakota, segna l’ingresso sud del parco nazionale Theodore Roosevelt (il marchese di Morès le diede il nome della moglie, Medora von Hoffman, anche se il romanticismo del gesto cozza con i motivi della fondazione della città, che era il luogo dove veniva macellato il bestiame destinato ai mercati a est). Medora oggi è una fantasia di un’epoca che non è mai esistita. C’è una statua di Roosevelt, un Rough riders hotel e, durante i mesi estivi, il Medora musical. La descrizione sul sito web è particolarmente azzeccata: “Lo spettacolo più mirabolante e danzereccio di tutto il midwest. Non c’è uno show come questo. È un’ode al patriottismo, a Theodore Roosevelt e al grande ovest americano!”. Quando arrivo sembra più che altro un’ode al covid-19: secondo il commesso del negozio di alimentari, uno dei componenti del cast sta diffondendo il virus dal palco.

Nella personalità di Roosevelt convivevano l’amore sfrenato per i paesaggi naturali e l’inclinazione alla violenza e all’imperialismo

Ho voluto cominciare il mio viaggio dal parco Theodore Roosevelt perché nessuno più del 26° presidente degli Stati Uniti riassume le contraddizioni dei parchi nazionali. Nella personalità di Roosevelt convivevano l’amore sfrenato per i paesaggi naturali e l’inclinazione alla violenza e all’imperialismo; un desiderio travolgente di libertà e la determinazione a toglierla agli altri. Buona parte del parco a lui intitolato sorge sulla terra dei nativi mandan, hidatsa e arikara (Mha). Le tribù Mha persero la terra nel 1851, con la firma del primo trattato di Fort Laramie. Due ordini esecutivi del 1870 e del 1880 espropriarono altri territori.

Roosevelt partì per il Territorio del Dakota nel 1883, per andare a caccia di bisonti. Quando tornò a New York sua moglie partorì la loro prima figlia, Alice. Ma due giorni dopo, il giorno di San Valentino, la donna morì a causa di un’insufficienza renale non diagnosticata. Lo stesso giorno, nella stessa casa, morì la madre di Roosevelt. Dopo aver tracciato una grande x nel suo diario, Roosevelt scrisse: “La luce è andata via dalla mia vita”. Tornò nell’ovest e costruì una fattoria nei pressi di Medora, sperando che la natura guarisse le sue ferite. Non rimase lì per molto. L’ovest non diventò mai la sua dimora stabile, ma lasciò un segno su di lui. E lui, a sua volta, lasciò il suo segno sull’ovest.

Roosevelt aveva una certa familiarità con i nativi, avendo interagito con loro quando era stato nel Territorio del Dakota. “Il cowboy più spietato ha più princìpi morali dell’indiano medio”, disse in un discorso del 1886, durante il quale fece una dichiarazione passata alla storia: “Non arrivo al punto di pensare che gli unici indiani buoni siano gli indiani morti, ma credo che sia vero per nove su dieci di loro, e preferirei non indagare troppo a fondo sul decimo”. L’atteggiamento di Roosevelt emerge chiaramente dal trattamento che riservò a Geronimo, il capo degli apache. Nato nel 1829, Geronimo trascorse i primi trent’anni della sua vita in pace e in sicurezza nel territorio apache, dove oggi sorgono New Mexico e Arizona. Nella seconda metà dell’ottocento diventò famoso in tutto il mondo per la sua lotta contro gli Stati Uniti e il Messico in difesa della terra della sua tribù.

L’America amava, e ama ancora, vedere i nativi allo stesso modo in cui vede la natura del paese: congelata nel tempo, fuori della storia

Nel 1858 – l’anno di nascita di Roosevelt – Geronimo partì dai monti Mogollon a seguito di una grande carovana e si fermò in Messico. Mentre era in città a fare affari, la sua banda fu attaccata e sterminata all’accampamento. Tra i morti c’erano sua moglie, sua madre e tre figli piccoli. “Non pregai né mi ripromisi di fare nulla in particolare, perché non avevo più uno scopo”, avrebbe ricordato più avanti. Come ha raccontato Gilbert King sulla rivista Smithsonian, la vita di Geronimo passò da uno stato di pace a uno di guerra perpetua, che si sarebbe conclusa solo con la sua cattura per mano delle forze statunitensi nel 1886, più o meno nel periodo in cui Roosevelt piangeva la moglie nel Territorio del Dakota.

Geronimo fu mandato a est e passò il resto della sua vita in cattività; la terra della sua tribù fu espropriata. Più o meno nello stesso periodo i bambini nativi furono allontanati dalle loro terre e mandati in collegi sponsorizzati dal governo, lontani dalle famiglie e dalla loro cultura per essere integrati più facilmente nella società statunitense. Se parlavano nella loro lingua venivano picchiati o costretti a lavarsi la bocca col sapone. Dei 112 bambini apache della tribù di Geronimo mandati alla Carlisle indian industrial school, in Pennsylvania, 36 morirono (la maggior parte di tubercolosi) e furono sepolti sul posto.

Geronimo riuscì a uscire di tanto in tanto (sempre sotto sorveglianza): in una di queste occasioni, nel 1904, gli fecero recitare la parte del selvaggio nel “villaggio apache” dell’esposizione universale di St. Louis. Un anno dopo lui e altri capi nativi furono invitati a partecipare alla parata per l’insediamento di Roosevelt. C’erano tutti i più famosi capi tribù: Quanah Parker (comanche), Buckskin Charlie (ute), Orso corno cavo (brulé lakota), Cavallo americano (oglala lakota) e Piccola Piuma (piegan piedi neri). I capi sfilarono a cavallo lungo Pennsylvania avenue, a Washington, in abiti tradizionali, anche se non completamente in linea con le rispettive tradizioni tribali. L’America amava, e ama ancora, vedere gli indiani allo stesso modo in cui vede la natura del paese: congelata nel tempo, fuori della storia, l’antitesi – o, nella migliore delle ipotesi, il limite esterno – dell’umanità e della civiltà.

C’è una cosa in cui noi nativi siamo bravi: andare avanti portandoci dietro il nostro passato. Forse possiamo indicare una strada migliore

Dopo la parata Geronimo incontrò Roo­sevelt. “Ci tolga le corde dalle mani”, lo implorò, in un appello disperato affinché gli fosse concesso di tornare nella sua terra insieme agli altri prigionieri apache. Roosevelt rifiutò e gli disse: “Hai ucciso la mia gente; hai bruciato i villaggi”. Geronimo cominciò a fare gesti e a urlare ma fu bloccato. Quattro anni dopo morì in cattività a Fort Sill, in Oklahoma.

Nel 1903 Roosevelt tornò nell’ovest. Ad aprile partì per un viaggio in treno di ventiduemila chilometri, attraversando ventiquattro stati e territori in nove settimane. Si fermò a Yellowstone, al Grand canyon e in California, dove si accampò per tre notti con John Muir. Durante il suo viaggio tenne diversi discorsi: al Grand canyon; a Yellowstone, dove posò la prima pietra per il Roosevelt arch, l’arco di trionfo all’entrata del parco; vicino ad alcune sequoie a Santa Cruz. Disse molte cose sulla maestosità della natura. A proposito del Grand canyon affermò: “Voglio chiedervi di fare una cosa nel vostro interesse e nell’interesse del paese: conservate questa grande meraviglia della natura così com’è adesso. Spero che non ci sarà mai nessuna costruzione, un cottage estivo, un albergo o altro, a rovinare la grande magnificenza, la sublimità, la profonda solitudine e bellezza del canyon”. E su Yellowstone: “È qualcosa di assolutamente unico al mondo, per quanto ne sappia. Il programma della sua conservazione è degno di nota nel suo essere profondamente democratico. Questo parco è stato creato, e oggi è amministrato, per il beneficio e per il godimento del popolo”.

Roosevelt trasformò le sue passioni in provvedimenti concreti. Durante il suo mandato creò 150 foreste nazionali, 18 monumenti nazionali, cinque parchi nazionali, quattro riserve di caccia nazionali e 51 “riserve” per uccelli. Geronimo e Roo­sevelt vissero durante i cinquant’anni cruciali in cui gli Stati Uniti si consolidarono nella loro forma definitiva. L’ultimo grande conflitto armato tra una tribù nativa e il governo statunitense si concluse a Wounded Knee nel 1890, quando trecento uomini, donne e bambini della tribù miniconjou guidata da Piede Grosso furono massacrati. La frontiera fu spinta fino al Pacifico, dove la terra finiva, e il vero spazio incontaminato dell’America – la terra sfuggita all’abbraccio della “civiltà” – fu assorbito. L’ovest americano comincia con la guerra ma finisce con i parchi.

I parchi nazionali comprendono una piccola parte della terra sottratta ai nativi, ma per loro hanno un significato enorme

Tensione costante

I nativi Mha vivono appena a nord e a est del parco nazionale Theodore Roosevelt, anche se in condizioni molto diverse da quelle degli abitanti di Medora e dintorni. La riserva Mha si è ridotta un po’ alla volta a causa dell’intervento del governo federale e per una serie di accordi vessatori, passando da 48mila chilometri quadrati a poco più di quattromila. Gli espropri sono continuati anche nel novecento: durante la costruzione della diga di Garrison, sul fiume Missouri, negli anni quaranta e cinquanta, l’80 per cento della popolazione della riserva fu costretta ad abbandonare il fertile letto del fiume che per secoli aveva dato la vita a queste tribù e aveva definito la loro stessa identità.

Negli anni sessanta dell’ottocento, molto prima che fosse costruita la diga, i Mha vivevano in un luogo chiamato “villaggio come-un-amo da pesca”, spiega Royce Young Wolf, la responsabile delle collezioni di un nuovo centro culturale Mha in costruzione. “Ora è tutto sotto il lago, inondato”, dice. Ci troviamo all’interno del parco, a Oxbow Overlook, con il fiume Little Missouri che serpeggia pigramente tra acri di campi di cotone e distese erbose. “Erano autosufficienti”, dice. “Ogni villaggio aveva il suo orto. Molte famiglie avevano dei custodi dei fasci sacri”. La diga fu progettata di fatto senza consultare i popoli Mha; dopo che il Corpo degli ingegneri dell’esercito minacciò di espropriare la terra per motivi di pubblica utilità, le tribù non ebbero altra scelta che sedersi al tavolo delle trattative e cedere il territorio. Nel 1949 ricevettero un indennizzo totale di appena 12,6 milioni di dollari per 60mila ettari confiscati.

“Ci spostarono da dove l’acqua era abbondante a dove non ce n’era”, dice Young Wolf. “I letti dei nostri fiumi erano i più fertili di tutto lo stato. Ma quando siamo stati inondati ci hanno fatto spostare in zone dove la terra è povera e non c’è acqua e non potevamo coltivare grandi orti”. I diritti delle tribù di usare la terra sul litorale del bacino idrico – per la caccia, la pesca o la raccolta delle piante – furono negati.

Negli ultimi anni i Mha si sono ritrovati al centro di una serie di rapide, violente e molto remunerative attività di fracking. Uscendo dal parco in auto in direzione nord, vedo la terra sfregiata da condutture, aperture di sfogo dei gas e siti di fracking che punteggiano le colline. Nel 2014 l’ex presidente tribale Tex Hall aveva promesso alle tribù “sovranità grazie al barile”, e aveva visto giusto: era dai tempi del primo trattato di Fort Laramie che le tribù non erano così ricche. Il fatto di incoraggiare e facilitare l’estrazione del petrolio, però, contrasta apertamente con il retaggio culturale delle tribù e la loro connessione con la terra.

Le nazioni native come Mha sono in una posizione difficile. Hanno resistito alle aggressioni dello stato alle loro famiglie, alle loro comunità, alla loro terra e al loro modo di vivere. Le loro strutture e istituzioni politiche tradizionali hanno sofferto per il paternalismo dell’Agenzia degli affari indiani, che controlla e gestisce i territori dei nativi.

Da una parte siamo nazioni sovrane, con le nostre leggi, le nostre forze dell’ordine, i nostri tribunali e le nostre infrastrutture locali, diretta emanazione dei diritti che siamo riusciti a conservare. Non è vero, come tutti pensano, che i casinò e il diritto al gioco d’azzardo sono stati “regalati” alle tribù come una sorta di pietoso risarcimento, o come riconoscimento di un debito nei nostri confronti. L’industria dei casinò è l’espressione moderna di un diritto civile al gioco d’azzardo che avevamo prima dell’arrivo dell’uomo bianco, un diritto che abbiamo conservato e che è stato sancito dalla corte suprema degli Stati Uniti. D’altro canto, non possiamo contare su entrate fiscali stabili o su grandi attività commerciali – a parte l’estrazione di risorse naturali, il gioco d’azzardo e la vendite di sigarette esentasse –, quindi dipendiamo dal sostegno federale per finanziare l’istruzione, la sanità, le infrastrutture e la nostra stessa sopravvivenza. Nelle parole di John Marshall, ex giudice della corte suprema, siamo “nazioni interne dipendenti” e viviamo in una condizione di tensione costante.

I Mha hanno avuto i loro guai: con la disoccupazione, l’abuso di stupefacenti, un matrimonio disastroso con l’industria del gas e del petrolio e i traumi intergenerazionali inflitti dal governo degli Stati Uniti. Ma le tribù sono più della somma dei loro problemi. I Mha sono anche premurosi custodi del loro patrimonio e della loro cultura. Il centro culturale che stanno costruendo è una struttura all’avanguardia al servizio di questi ideali.

L’Mha interpretive center sorge sul territorio del Corpo degli ingegneri dell’esercito. Delphine Baker, la direttrice del centro, spiega che il governo non voleva che le tribù fossero proprietarie della terra, perché temeva che i nativi avrebbero preso il controllo delle attività ricreative e avrebbero negato l’accesso ad altre persone. “La tribù non ha mai interesse a bloccare l’accesso. Ma sai, c’è questa paura”.

La struttura è magnifica, con i terrapieni a strapiombo e i camminamenti ricurvi che fanno da specchio alle dolci colline e alle praterie dell’area tribale Mha. All’interno c’è una replica parziale di una earth lodge, la dimora tradizionale delle tre tribù, e uno spazio adibito a galleria che racconta la storia dei Mha. L’Interpretative center ospiterà centinaia, se non migliaia, di manufatti tolti alle tribù nel corso degli anni. Ma la struttura non ha solo uno scopo dimostrativo: sul tetto c’è un giardino dove verranno coltivate piante tradizionali; un caffè che servirà cibi della tradizione; uno studio di registrazione per la conservazione delle lingue tribali e uno spazio per le ricerche dove i membri delle tribù potranno ricostruire il loro albero genealogico. Per tanti nativi che sono stati separati dalle loro tribù a causa delle ingerenze federali, ricongiungersi alle loro radici è un servizio importante che il centro si propone di offrire. In realtà è molto più di un centro interpretativo, è una cittadella culturale. “Se perdi la tua cultura, perdi la tua sovranità e la tua tribù. Ed è contro questo che combattiamo”, dice Baker.

Katy Grannan

Il primo degli “addetti al parco” che incontro durante il mio viaggio è Grant Geis, ormai ex capo dei ranger del parco nazionale Theodore Roosevelt (è andato in pensione poco dopo la mia visita). Geis è alto, ha le spalle larghe, la faccia segnata e mani grandi e forti. È arrivato al parco nel 1998 per lavorare come stagionale. “Non appena ho visto Painted canyon me ne sono innamorato”, dice, “e da allora sono sempre stato qui”.

Quasi tutte le persone che lavorano per i parchi usano la parola “amore” per descrivere questi luoghi, i panorami e il loro ruolo di custodi della terra e dei suoi visitatori. Nella mia esperienza non è una parola che i dipendenti pubblici usano spesso quando parlano del loro lavoro. Chiedo a Geis di Teddy Roosevelt e della sua eredità. “Credeva fermamente nella terra e nei suoi molteplici usi, ma allo stesso tempo cercava di conservare qualcosa per le generazioni future”, risponde. “Il fatto che fosse così lungimirante dice molto del suo carattere”. Ma Geis sa anche che Roosevelt fece degli errori, e crede che i gestori dei parchi dovrebbero collaborare con le tribù native che vivono nei dintorni.

Gli errori di Roosevelt e di altri come lui non sono ancora presenti nelle leggi di questo paese. Il fatto di non aver potuto avere accesso alla terra – e al potere che ne sarebbe derivato – è alla base dei mali sociali che affliggono molti popoli nativi. Ma in alcuni luoghi l’atteggiamento degli statunitensi sta cambiando. E nei parchi stanno cambiando anche le politiche, seppur lentamente e in modo frammentario.

Pat Schildt nella riserva dei nativi piedi neri, in Montana, marzo 2021 - Katy Grannan, The Atlantic
Pat Schildt nella riserva dei nativi piedi neri, in Montana, marzo 2021 (Katy Grannan, The Atlantic)

Ho fatto il mio primo viaggio nell’ovest degli Stati Uniti, insieme ai miei genitori e i miei due fratelli, all’inizio degli anni ottanta. Ci siamo fermati al parco Theodore Roosevelt, a Custer Battlefield (oggi Little Bighorn), a Yellowstone e al Grand Teton. I popoli indigeni erano a malapena menzionati e non ricordo di aver incontrato neanche un ranger nativo né di aver mai avuto l’impressione che il nostro popolo esistesse ancora. Dopo l’approvazione del Native american graves protection and repatriation act, nel 1990, le tribù e i parchi (oltre a musei, gallerie e collezioni private) si sono avvicinati nello sforzo di preservare gli spazi e gli oggetti dei nativi. Molte tribù oggi hanno degli addetti alla tutela del patrimonio storico che lavorano con i parchi.

Anche l’uso della terra all’interno dei parchi sta cambiando. Il servizio dei parchi nazionali ha reso più facile per i nativi raccogliere piante per scopi tradizionali. Alcuni parchi ci permettono perfino di cacciare o di piazzare trappole all’interno dei confini. Sotto certi aspetti, questa è un’epoca di riscatto per i nativi. Nonostante tutto quello che abbiamo passato, negli Stati Uniti ci sono ancora 574 tribù riconosciute dal governo federale. Quando furono creati i primi parchi nazionali, alla fine dell’ottocento, negli Stati Uniti c’erano appena 250mila nativi. Oggi nel paese più di 5 milioni di persone si definiscono native, più o meno lo stesso numero degli ebrei americani e quasi due milioni di più dei musulmani americani. La nostra sopravvivenza non è stata importante solo per noi. I tentativi di integrarci sono in gran parte falliti; siamo rimasti nei nostri territori e gli statunitensi si sono gradualmente adeguati alle nostre culture, alla nostra visione del mondo e al nostro modo di interagire con la natura. I parchi consacrano i luoghi, ma allo stesso tempo enfatizzano e privilegiano un modo particolare di rapportarsi con la terra. Nel passato mitico della nazione, la natura era un ambiente ostile, che andava sottomesso, scavato, abbattuto. Oggi questa visione del mondo non è più di moda. Per molti americani gli spazi naturali sono un conforto, un rifugio, proprio come una cattedrale. Negli ultimi 245 anni è successo che gli Stati Uniti sono diventati più “indiani” invece che il contrario.

Caccia al bisonte

Mi ci vogliono alcuni giorni per esplorare a piedi la zona sud del Theodore Roosevelt. Rispetto a parchi più affollati, come Yellowstone e Yosemite, questo è tranquillo e silenzioso, così silenzioso da sembrare segreto. Parto da colline rosse e polverose e durante la discesa attraverso corsi d’acqua e alvei asciutti. Ho la chiara sensazione che ogni passo mi porti indietro nel tempo. Il sentiero s’insinua tra i tronchi pietrificati di una palude vecchia un milione di anni e sbuca su una pianura verdeggiante, dove il vento urla tra l’erba, le echinacee, gli astri e i fiori di solidago. Passo vicino a rupi dove forse un tempo le tribù spinsero i bisonti in fuga, facendoli precipitare sulla dura terra sottostante.

Il giorno dopo l’escursione faccio colazione con Wendy Ross, la sovrintendente del parco. Le chiedo se non sarebbe giusto che i nativi usassero il parco in modo diverso dai non nativi, vista la loro antica presenza in questi territori che in origine appartenevano alle tribù Mha. Perché i Mha non possono cacciare i bisonti nel parco? Ross risponde che è una questione un po’ scivolosa. Se il parco permettesse ai nativi di cacciare i bisonti, gli altri abitanti del North Dakota avrebbero una crisi isterica e, cosa più grave, verrebbero incoraggiati gli sforzi dei cacciatori, che da tempo chiedono di aprire i parchi del paese per la caccia sportiva. “Il problema”, dice Ross, è che “non ci sono protocolli” a livello nazionale, e quindi c’è molta confusione. “Qui al Roosevelt dico a tutti i miei collaboratori: facciamo entrare chiunque venga qui per motivi cerimoniali o spirituali”. Non ho dubbi che sia sincera. Ross sembra una buona leader e un’alleata delle tribù che vivono vicino al Roosevelt. Parla di risarcimenti per i nativi, di “mettere a disposizione tutto quello che si può alla gente che un tempo usufruiva costantemente di quest’area, e poi allargare questo concetto ad altri popoli indigeni”. Ha perfino partecipato alle riunioni tribali. Sovrintendenti come Ross stanno cambiando i parchi per adeguarli alle esigenze delle nazioni native, ma non possono fare molto di più.

I popoli nativi devono avere accesso permanente e senza limiti ai loro territori; questo rafforzerebbe sia noi sia le nostre comunità e riparerebbe parte dei danni dei secoli passati. Essere nativi non vuol dire solo avere una certa quantità di sangue nelle vene: è una pratica intorno alla quale si sviluppano famiglie e tribù. Per un shoshone-bannock comprare un hamburger di bisonte da Whole Foods può soddisfare un fabbisogno calorico, ma poter andare a caccia di bisonti e raccoglierne i frutti secondo le antiche pratiche spirituali e culturali è un modo di alimentare la propria cultura e la propria comunità. La vita dei nativi è stata sminuita quando la nostra terra ci è scomparsa da sotto i piedi, e viene ulteriormente sminuita quando le modalità di accesso alle terre “pubbliche” sono definite dal governo.

Preservare questi luoghi sublimi per le generazioni future è fondamentale, questo i nativi americani lo capiscono meglio di chiunque altro. Ma mettendo per un attimo da parte gli interessi dei nativi (e senza nulla togliere all’impegno e alla buona volontà di molti dipendenti dei parchi) oggi i parchi statunitensi mostrano segni allarmanti di cattiva gestione. Sono state prese tante decisioni miopi, e spesso questi spazi naturali diventano oggetto di contese politiche. Il monumento nazionale di Bears Ears, nello Utah, è stato creato da Barack Obama poco prima della fine del suo mandato. Un anno dopo Donald Trump ha ridotto il territorio di Bears Ears dell’85 per cento, e ora decine di siti archeo­logici e sacri sono messi a rischio dal traffico e dalle attività estrattive. Probabilmente Joe Biden cancellerà la decisione del suo predecessore, ma non è un buon segnale per il futuro.

Jade-Heather Hinman con cinque dei suoi sette figli nel marzo 2021 a Camp Disappointment, in Montana - Katy Grannan, The Atlantic
Jade-Heather Hinman con cinque dei suoi sette figli nel marzo 2021 a Camp Disappointment, in Montana (Katy Grannan, The Atlantic)

I parchi nazionali stanno entrando in crisi, perché l’affluenza aumenta mentre il numero dei dipendenti – e il peso degli scienziati – si è ridotto. I parchi hanno assolto dignitosamente al compito di preservare il passato. Ma non è detto che l’attuale modello di cura e custodia sia quello che risponde meglio ai bisogni della terra, dei popoli nativi o del pubblico in generale. E non è detto neanche che il sistema attuale sia in grado di assicurare il futuro di questi luoghi. C’è una cosa in cui noi nativi siamo bravi: andare avanti portandoci dietro il nostro passato. Forse possiamo indicare una strada migliore.

Tutti i 340mila chilometri quadrati di parchi nazionali dovrebbero essere affidati a un consorzio di tribù riconosciute a livello federale. Non sarebbe ripristinata la situazione precedente alla legge sulla lottizzazione del 1887, che ci ha sottratto 360mila chilometri quadrati, ma per lo meno avremmo un accesso incondizionato alle nostre terre tribali e recupereremmo una dignità che ci spettava di diritto. Affidarci la tutela dei paesaggi più preziosi d’America sarebbe una forma di risarcimento profondamente significativa. Potremmo trarre tutti ispirazione dall’aver fatto la cosa giusta gli uni per gli altri.

Assicurare il futuro

Restituire queste terre al controllo collettivo dei nativi non sarebbe un bene solo per i nativi ma anche per i parchi. Oltre a una profonda e costante devozione agli spazi naturali, le tribù hanno una lunga esperienza nell’amministrare territori sperduti e nell’affrontare vari livelli di burocrazia. Molte riserve sono a macchia di leopardo: spesso i territori sono sparsi e separati gli uni dagli altri. Inoltre gran parte della terra all’interno dei confini delle riserve appartiene a entità diverse (cittadini privati e non nativi, aziende, stati, il governo federale) che la leadership tribale è in grado di mettere d’accordo e accontentare. Attraverso la dura pratica – e secoli di battaglie legali, politiche e fisiche – le comunità native sono diventate abili nell’arte di governo. Le tribù sanno per esperienza quanto la terra dia forza alla gente che ci vive.

Il trasferimento, però, dovrebbe essere sancito da accordi vincolanti, in modo che la salute ecologica dei parchi venga preservata – e migliorata – anche nel futuro. Il governo federale dovrebbe continuare a garantire un sostegno economico per la manutenzione dei parchi in modo da tenere bassi i prezzi d’ingresso, e le tribù continuerebbero a garantire l’accesso a tutti. Motociclisti e gruppi di studenti, modelle Instagram e Tony Hawk: tutti sarebbero i benvenuti. Governeremmo questi meravigliosi luoghi per noi stessi, ma anche per tutti gli americani.

Ci sono dei precedenti per un provvedimento di questo tipo. Le popolazioni indigene dell’Australia e della Nuova Zelanda oggi controllano alcuni dei siti naturali più importanti di quei paesi. Uluru, che un tempo si chiamava Ayers Rock, è stato trasferito agli anangu decenni fa. Grazie a una legge approvata nel 1976, quasi la metà del Territorio del Nord dell’Australia è stato restituito al popolo aborigeno. Nel 2017 ai maori neozelandesi è stato garantito un ruolo più ampio nella conservazione del fiume Whanganui, sull’Isola del Nord. Il sito è aperto alle visite come prima, ma oggi i maori hanno più voce in capitolo sull’uso del fiume.

Ci sono precedenti anche in America. Nel 1880 la Francia cominciò i lavori per il canale di Panamá, poi rilevato dagli Stati Uniti nel 1904. Theodore Roosevelt (sempre lui) fece un patto con i nazionalisti panamensi in base al quale gli Stati Uniti avrebbero ricevuto il canale in cambio dell’appoggio alla lotta per rovesciare il governo colombiano. Ma nel 1977 il presidente Jimmy Carter e il generale panamense Omar Torrijos firmarono un accordo che definì il trasferimento del controllo del canale al governo di Panamá. Il canale è stato gestito congiuntamente dai due governi fino al 1999, quando il controllo è tornato pienamente a Panamá. Non succede spesso, ma anche agli Stati Uniti è capitato di restituire qualcosa.

Nel 1914 lo storico Frederick Jackson Turner disse che la democrazia statunitense è stata fondata sulla frontiera. È lì che la miscela tutta americana di ugualitarismo, autosufficienza e individualismo si è fusa plasmando la nazione e il suo carattere. “La democrazia americana”, diceva Turner, “non è nata dal sogno di un teorico. È uscita dalla foresta americana, e ha preso nuova forza ogni volta che ha toccato una nuova frontiera”. Ha ragione a metà. Non è stata la frontiera a fare la nazione. È stata la terra, una terra che è sempre stata terra nativa ma che è anche diventata americana. I parchi nazionali sono la cosa più vicina a un territorio sacro che l’America abbia mai avuto e, come la frontiera dei tempi andati, possono contribuire a rifondare la nostra democrazia. Più che “la migliore idea” dell’America, i parchi sono il suo meglio, i gioielli del suo paesaggio. È tempo che vengano restituiti ai popoli originari d’America. ◆ fas

David Treuer è uno scrittore nativo americano. Nel 2019 ha pubblicato The heartbeat of Wounded Knee: native America from 1890 to the present (Riverhead Books).

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Questo articolo è uscito sul numero 1420 di Internazionale, a pagina 126. Compra questo numero | Abbonati