In un centro australiano per richiedenti asilo sull’isola stato di Nauru, nel Pacifico, una trentina di persone in attesa che la loro richiesta sia valutata vivono alla giornata. Da un mese non sono più detenuti nel centro, ma non sono liberi di lavorare né di lasciare l’isola, e non hanno idea di cosa ne sarà di loro. Il centro, uno di quelli dove l’Australia dal 2001 trasferisce i migranti arrivati sulle sue coste, può ospitare più di cento persone. Tra i nuovi residenti c’è Ahmed, scappato dal Bangladesh, arrivato a Darwin via mare all’inizio di maggio e trasferito a Nauru.
Alla fine di agosto erano 94 i richiedenti asilo detenuti sull’isola e la stragrande maggioranza è ancora in attesa di una risposta, senza avere idea di quando potrebbe arrivare. Nel frattempo, non potendo lavorare, dipendono dai 230 dollari (circa 141 euro) che ricevono ogni due settimane dal governo australiano. Ahmed spiega che il contributo non è minimamente sufficiente per comprare da mangiare: a causa dei costi di trasporto, sull’isola è tutto molto caro. “I soldi non bastano, mangiamo solo due volte al giorno”, dice. “Non possiamo nemmeno aiutare le nostre famiglie, che dipendono da noi”.
Ali, arrivato sullo stesso barcone di Ahmed, racconta che i medici dell’International health and medical services, l’azienda che ha in appalto i servizi sanitari nei centri per migranti australiani, gli hanno detto che deve mangiare più verdura, ma lui non può comprarla. Spiega che un piccolo cavolo può costare perfino venti dollari. “Anche carne, pesce e riso sono molto cari”. Il centro ha una piccola cucina e si trova a un’ora a piedi dai negozi più vicini. C’è un autobus, ma è inaffidabile.
Ahmed racconta che oltre alle difficoltà economiche anche i dubbi sul futuro sono duri da sopportare. “Una volta arrivati qui non abbiamo più notizie di alcun tipo”, dice. Chi può permetterselo comunica via WhatsApp. Molti continuano a definire l’Australia il paese “dei sogni” e sperano un giorno di potercisi stabilire. L’ong Asylum seeker resource centre (Asrc) riferisce che quasi la metà soffre di gravi disturbi mentali e che uno su dieci ha pensieri suicidi. “Il nostro paese ha un atteggiamento crudele verso chi arriva sulle nostre coste in cerca di salvezza”, dice Jana Favero, vicedirettrice di Asrc.
Mancanza di trasparenza
Il centro di Nauru è l’unico sito offshore australiano ancora attivo dopo che quello sull’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea, è stato chiuso nel 2019 per ordine della corte suprema papuana, che l’ha giudicato incostituzionale. Canberra è stata costretta a risarcire le migliaia di persone che erano state detenute lì illegalmente. Negli ultimi anni il centro di Nauru era vuoto, ma da più di un anno il numero di richiedenti asilo trattenuti sull’isola è aumentato in modo costante. All’inizio del 2023 il governo australiano ha assegnato alla Mtc, un’azienda statunitense che gestisce carceri private, un contratto da 420 milioni di dollari per fornire servizi di sorveglianza e assistenza sull’isola per tre anni.
Secondo Favero i richiedenti asilo dovrebbero essere trasferiti in Australia in attesa di una decisione sul loro status. “Queste persone arrivano qui e noi dobbiamo trovare un modo per valutare con umanità se hanno i requisiti per lo status di rifugiati o no. E, se ce l’hanno, dobbiamo essere in grado di fornirgli un orizzonte temporale e tutte le informazioni necessarie al loro reinsediamento”. L’Asrc ha faticato molto a ottenere informazioni dal ministero dell’interno sulle procedure e le possibili opzioni di reinsediamento per queste persone. “C’è un’assoluta mancanza di trasparenza su cosa succede a queste persone dopo il loro trasferimento a Nauru”, dice Favero. “Non c’è nemmeno una supervisione sulle procedure legali”.
Mentre Ahmed aspetta di ricevere notizie sulla sua domanda d’asilo e su dove sarà ricollocato, trascorre le giornate in uno stato di profonda incertezza. “Vogliamo solo lavorare”, dice. “Vogliamo provvedere alle nostre famiglie e a noi stessi. Abbiamo bisogno di un’opportunità per sistemare le nostre vite, chiediamo solo questo”. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1590 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati