Cosa succede agli 1,4 miliardi di paia di scarpe da ginnastica prodotte ogni anno nel mondo, che prima o poi devono essere smaltite? Come gruppo di giornalisti tedeschi del settimanale Die Zeit, dell’emittente radiofonica Ndr e del sito di giornalismo investigativo Flip, abbiamo voluto scoprirlo. Perciò abbiamo messo dei localizzatori gps nelle suole delle scarpe usate di undici persone famose e ne abbiamo seguito le tracce: dove vanno a finire dopo essere state buttate in uno dei tanti cassonetti per la raccolta degli abiti usati che troviamo nelle strade delle nostre città? All’inizio della ricerca non sapevamo cosa aspettarci, di certo non immaginavamo che ci avrebbero portato in Ucraina e in Africa.
Louisa Dellert, un’influencer che sui social network parla spesso di sostenibilità ambientale, ci ha consegnato un paio di scarpe vecchie di marca Veja. Ad Amburgo le gettiamo in un cassonetto della Soex, un’azienda che ricicla prodotti tessili e che a Bitterfeld-Wolfen, in Sassonia-Anhalt, gestisce l’impianto di selezione di rifiuti tessili più grande del mondo.
Ma le scarpe di Dellert non arriveranno mai alla Soex: il primo segnale ci arriva dal cortile di un rivenditore di auto usate, che commercia anche in abbigliamento di seconda mano, a Mülheim sul fiume Ruhr, nel Nordreno-Vestfalia. Un secondo segnale ci permette poi d’individuare con precisione un’anonima casa arancione di Mostyska, città di novemila abitanti nell’Ucraina occidentale.
Andiamo a Mostyska un giorno di fine settembre del 2021. Lungo la strada, vecchi carri trainati da cavalli avanzano lentamente, mentre nei cortili delle case le galline razzolano nel fango. Si sente odore di bruciato per via dei falò di foglie secche. La casa misteriosa è immersa nel silenzio, con le luci spente e il recinto per i cani vuoto. Suoniamo, ma nessuno risponde.
“Non c’è nessuno!”, grida qualcuno in ucraino. A parlare è un uomo di una cinquantina d’anni che ci dice di chiamarsi Marian. Trovare lavoro da queste parti non è facile, aggiunge, per questo da 26 anni sale sul suo furgone Mercedes per dedicarsi al contrabbando internazionale. “Ho trasportato di tutto”, racconta. E per tanti committenti diversi, ma “droga e armi mai”. Perché sono illegali, spiega.
Confini sfumati
In realtà, quello che fa lui non è del tutto legale. Il suo lavoro comincia in Polonia, poco oltre il confine. Lì prende in consegna pneumatici, frigoriferi, giocattoli e scarpe. Ogni due settimane li carica sulla sua auto dentro grandi sacchi bianchi. Se non lo fermano, nessuno può chiedergli di pagare dei dazi. Secondo lui, in questa zona dell’Ucraina tutti sono coinvolti in affari simili, anche l’uomo che abita nella casa arancione. Ma non possiamo verificarlo.
I geolocalizzatori mostrano che le nostre scarpe non sono più a Mostyska. Seguendo il segnale, arriviamo in un’altra cittadina, Storožynec, nel sudovest dell’Ucraina. Stavolta però l’indicazione è meno precisa: l’unica cosa che riusciamo a capire è che per più di due settimane i localizzatori nelle scarpe di Louisa Dellert si sono agganciati allo stesso ripetitore. Poco oltre il centro città, a poche vie di distanza dal ripetitore, in una strada che conduce fuori dall’abitato, c’è il terreno di un rivenditore di prodotti tessili che sul suo sito dichiara d’importare scarpe dalla Germania.
Il titolare, 50 anni, è un uomo minuto, con gli occhi segnati dalle rughe e cerchiati di un nero così scuro e innaturale che sembra truccato. È avvolto da una nuvola di profumo dolciastro. Sostiene di essere il maggior importatore di scarpe tedesche in Ucraina: gliene arrivano fino a venti tonnellate al mese. Quando gli chiediamo se conosce il commerciante di auto usate e di abbigliamento di seconda mano di Mülheim esclama: “È un amico!”. Spesso compra da lui la merce presa dai cassonetti tedeschi per la raccolta degli abiti usati. Ammette anche d’importare le scarpe di contrabbando, per evitare di pagare il 20 per cento di tasse. Il rivenditore di Storožynec tratta esclusivamente scarpe tedesche. Sui sacchi che vende ai negozi di seconda mano sono stampati i colori della bandiera tedesca. È una trovata pubblicitaria: Germania è sinonimo di qualità, spiega.
Gli ultimi segnali gps arrivano dalla città di Černivci, a 25 chilometri di distanza. Lì il nostro rivenditore ha un negozio di abbigliamento usato, il Bundes, da Bundesrepublik (Repubblica federale tedesca). Il negozio è illuminato da una luce fredda e i vestiti sono appesi ad aste appendiabiti lunghe diversi metri. In sottofondo si sente della musica pop ucraina. Gli abiti si vendono a peso, a un prezzo che oscilla tra i cinque e i quindici euro al chilo.
Accanto a un paio di scarpe di cuoio vediamo le Veja di Louisa Dellert che abbiamo seguito per duemila chilometri. Le abbiamo gettate in un cassonetto della Soex in Germania e sono finite qui. Perché? Quando gli mostriamo i segnali gps, l’amministratore delegato della Soex osserva: “Mi puzza un po’ di furto”. Decide di approfondire e le successive indagini gli riveleranno che negli ultimi tempi dall’area dove abbiamo buttato le scarpe di Dellert sono arrivate delle quantità di merce decisamente inferiori a prima. La faccenda, ci dice, è stata affidata a un avvocato.
Fino in Kenya
Nell’inchiesta abbiamo imparato che un paio di scarpe in buone condizioni, se recuperato da un cassonetto per gli abiti usati, può effettivamente avere una seconda vita. Una parte del merito è di questo mercato che funziona secondo regole tutte sue, anche se è popolato da personaggi ambigui come l’imponente Marian e il rivenditore dagli occhi cerchiati.
Secondo Thomas Böschen, il capo della Texaid, un’altra grande azienda che ricicla prodotti tessili, gli affari attraversano un momento difficile. Ogni giorno i suoi dipendenti selezionano 350mila capi d’abbigliamento e scarpe, tra cui anche un paio di sneaker dotate di gps che abbiamo inviato direttamente alla Texaid. Secondo Böschen l’attività è redditizia se nelle montagne di abiti usati si trova qualcosa da riutilizzare e rivendere, in Europa orientale, per esempio. Il resto, tra cui le nostre sneaker in cattivo stato, finisce all’inceneritore.
La qualità della merce sta peggiorando anche perché le grandi aziende che vendono abbigliamento, come per esempio Zalando, ritirano l’usato migliore per rivenderlo sui loro siti internet. Il modello di business di Böschen è a rischio, e lui vorrebbe che s’impedisse ad altri di selezionare prima la merce migliore.
Non tutto il contenuto dei cassonetti dell’usato finisce all’inceneritore, e il resto non finisce necessariamente ai poveri. Lo dimostra il viaggio compiuto dalle scarpe della conduttrice televisiva Linda Zervakis: gettate in un cassonetto della Croce rossa tedesca ad Altona, un distretto di Amburgo, sono arrivate fino in Kenya.
Da anni in Africa orientale va avanti una polemica sul vietare o meno l’importazione di abiti usati. I sostenitori del divieto pensano ai vantaggi per il mercato tessile locale e immaginano una maggiore indipendenza dall’occidente. I loro avversari – con in testa gli Stati Uniti – prevedono invece che a colmare il vuoto lasciato dagli abiti usati non sarà il mercato locale, ma uno scadente abbigliamento made in China. Fino a quarant’anni fa il tessile keniano impiegava mezzo milione di lavoratori, diventati oggi appena 40mila.
Il primo segnale delle scarpe di Linda Zervakis ci porta a Kitengela, alla periferia di Nairobi, dove vivono 150mila persone. Qui una classe media in ascesa insegue il sogno di una vita migliore. A ogni angolo si costruiscono palazzine a più piani, mentre su una strada a quattro corsie si affollano moto dotate di ombrelloni per i passeggeri, auto, venditori ambulanti e perfino una mandria di mucche guidata dai pastori di una popolazione nomade.
Al pianterreno di un palazzo di cinque piani c’è Think twice, un negozio di abbigliamento usato. Il marchio ha venticinque punti vendita in Kenya e qualcuno anche in Germania. Entriamo, visto che da questo negozio le sneakers di Linda Zervakis hanno mandato i primi segnali registrati in Kenya. Una commessa ci dice che la maggior parte dei capi viene dall’Europa. La merce arriva ogni due settimane. In un primo momento le scarpe da donna vengono messe in vendita a un prezzo massimo di cinque dollari, quelle da uomo a un massimo di dodici. Poi con il passare del tempo il prezzo diminuisce. Alla fine sono svendute per meno di un euro e, a volte, comprate in blocco da altri rivenditori a caccia di buoni affari. Con ogni probabilità anche le scarpe di Zervakis saranno state comprate da questi rivenditori, perché il segnale successivo lo registriamo al Gikomba market, il più grande mercato dell’Africa orientale di mitumba, il termine usato in Kenya per indicare l’abbigliamento di seconda mano proveniente dall’occidente. Nessuno sa esattamente quante persone ci lavorano: secondo le stime del municipio di Nairobi, sono circa 65mila. Il mercato è una specie di enorme labirinto e l’area dedicata alle scarpe usate è talmente grande che ci passiamo un’intera giornata.
Prezzi stracciati
Arriviamo all’alba ma c’è già tantissima gente occupata a scaricare dai camion balle da venticinque chili piene di vestiti: le trascinano su per i vicoli a bordo di carretti di legno oppure le trasportano a spalla fino alle bancarelle. L’atmosfera è frenetica, tesa. C’è appena stato l’ennesimo incendio e nell’aria si sente ancora odore di bruciato. Dove prima si trovavano alcuni magazzini ora restano solo macerie. Le stanno rimuovendo alcune ruspe, che a stento riescono a percorrere i vicoli stretti.
La polizia è convinta che l’incendio sia doloso, anche se non è chiaro chi possa averlo appiccato. Dai discorsi dei commercianti emerge, in piccolo, la polemica in merito all’importazione di merce di seconda mano. Al Gikomba market alcuni ipotizzano che dietro all’incendio ci siano i commercianti cinesi che vogliono invadere il Kenya con vestiti nuovi a basso costo. Altri invece puntano il dito contro il governo. Prove non ce ne sono, ma le voci corrono, rendendo l’atmosfera più elettrica di quanto non fosse già.
Nell’incendio è stata distrutta anche la merce di Lucy Gitau, che importa abiti usati: da due a cinque container al mese, pieni soprattutto di magliette, ma anche di scarpe. In un container ce ne stanno quarantamila. A Gitau piacerebbe aumentare le importazioni, ma non può, perché la qualità degli abiti sta peggiorando. Far arrivare un container è sempre una scommessa: si paga in anticipo, senza sapere cosa ci sarà dentro. Anche se i keniani non la vogliono, la merce di cattiva qualità arriva lo stesso. Ai selezionatori europei conviene più infilarla nei container destinati all’Africa che bruciarla.
Gitau rivende gli abiti usati alle commercianti del mercato. Una balla da 25 chili di scarpe miste (una cinquantina di paia) costa più o meno 75 euro. Una venditrice di nome Jane fa questo lavoro da diciassette anni. La mattina in cui la incontriamo ha appena comprato due balle di scarpe usate. In mezzo a tutta quella baraonda, Jane gestisce una bancarella in lamiera di meno di sei metri quadrati. Mette per terra un telo cerato blu, squarcia la plastica che avvolge le balle e ci rovescia sopra le scarpe: sandali, scarpe da ginnastica della Nike e dell’Adidas, scarpini da calcio, ciabattine. Jane può rivendere un paio di sneakers in buono stato a sei euro, un paio di scarpe per bambini a due. Anche per lei è un terno al lotto: se le balle contengono scarpe buone riesce a guadagnare fino a venti euro, altre volte ci rimette.
Ogni domenica l’invenduto viene accatastato per essere dato via a prezzi stracciati. Quello che avanza viene bruciato e molte scarpe finiscono nel fiume Nairobi, che costeggia il Gikomba market ed è noto per essere inquinatissimo. Sulle sue sponde troviamo scarpe Nike, Adidas e di altri marchi, quasi distrutte, alcune piene di lombrichi. L’acqua è nera e, secondo alcune organizzazioni ambientaliste, emette bolle di gas metano e acido solfidrico. Le sneakers di seconda mano europee non sono le uniche responsabili, ma contribuiscono all’inquinamento del fiume.
◆ Le scarpe usate della conduttrice tedesca Linda Zervakis, al centro di quest’inchiesta, sono state buttate il 6 giugno 2021 in un cassonetto di Amburgo, in Germania (1). Successivamente i geolocalizzatori nascosti nelle suole hanno mandato segnali da Ennigerloh, dalla sede di un’azienda tedesca di logistica (2); dal porto di Anversa, in Belgio (3); dal canale di Suez, in Egitto (4); da Raysut, sulla costa dell’Oman (5); da due diverse località, il quartiere di Kitengela e il Gikomba market, della capitale keniana Nairobi (6). Il viaggio è finito l’8 ottobre. Secondo gli autori dell’inchiesta il settore della moda, nonostante le promesse di ecosostenibilità, produce tante emissioni quanto i voli aerei e le crociere messi insieme. Le scarpe da ginnastica, composte da decine di materiali, sono particolarmente difficili da riciclare. Flip
E le scarpe di Linda Zervakis? Il secondo segnale arriva da una bancarella vicina a quella di Jane, anche se non riusciamo a capire esattamente quale. Però è chiaro che neanche in questo mercato qualcuno è disposto a comprarle. Così finiscono nelle mani dell’ennesimo intermediario.
L’ultimo segnale arriva da Eastleigh, un quartiere soprannominato Little Mogadishu (Piccola Mogadiscio), dove vivono molti profughi somali e dove il ministero degli esteri keniano sconsiglia di andare. A Eastleigh si vendono e si comprano vestiti, gioielli e armi. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite è una roccaforte del gruppo armato estremista islamico Al Shabaab.
Il segnale arriva da un cortile. Ci avviciniamo in auto e la sbarra si solleva. Dentro si svolgono attività di import-export. Su alcuni camion vediamo dei sacchi pieni di scarpe. Scendiamo dall’auto nel punto esatto dell’ultimo segnale. C’è un piccolo magazzino con l’insegna Moyale store. Intorno a noi si forma un capannello di persone. Il proprietario sembra diffidente, ma ci dice che rivende le scarpe usate fino al confine con l’Etiopia. Dopo alcuni minuti, però, dobbiamo andarcene: l’uomo è scomparso all’improvviso e la gente intorno si è messa a picchiare contro la nostra auto. Ora sappiamo che nessuno in Kenya ha voluto comprare le scarpe da ginnastica usate da Linda Zervakis. A quanto pare, hanno proseguito il viaggio fino in Etiopia. Ma non è stato possibile seguirle fin là: la batteria del geolocalizzatore si è scaricata.
La Croce rossa tedesca rifiuta di rilasciare un commento sulle strade tortuose prese dagli abiti usati che raccoglie. Ci mandano una dichiarazione: “L’accusa secondo cui le esportazioni di indumenti usati avrebbero compromesso il settore tessile dei paesi africani è da considerarsi ormai superata. Piuttosto, il declino del settore tessile ha altre cause, legate alle difficili condizioni di produzione: blackout frequenti, irregolarità nell’approvvigionamento idrico, mancanza di pezzi di ricambio. Senza contare il taglio delle sovvenzioni alle aziende tessili a partire dall’inizio degli anni ottanta”. Wagura Kamwana, 42 anni, la pensa diversamente. Sette anni fa a Nairobi, ha fondato Textile loft, una boutique con annessa una sartoria. Su camicie, camicette e abiti in vendita nel negozio c’è l’etichetta “Made in Kenya”. L’obiettivo di Kamwana è ricostruire l’industria tessile locale. “Le importazioni di indumenti usati hanno ucciso il settore”, sostiene.
I capi d’abbigliamento in vendita da Textile loft sono di ottima qualità, disegnati da stilisti locali, ma Kamwana può fare ben poco contro la marea di abiti usati importati a basso costo. È convinta, però, che in futuro il settore tessile potrebbe tornare a essere abbastanza importante da rifornire la popolazione keniana di vestiti a prezzi convenienti e dare lavoro a molte più persone. “Noi keniani siamo imprenditori, ce la faremo”, osserva.
Cumuli di rifiuti
Ma la strada è ancora lunga. Lo s’intuisce arrivando a Dandora, un altro quartiere di Nairobi, noto per ospitare una delle discariche più grandi dell’Africa: circa trenta ettari, saturi ormai da tempo. Eppure la discarica continua a crescere, perché ogni giorno ci vengono riversate centinaia di tonnellate di rifiuti alimentari, elettronici, sanitari e di plastica. Più ci si avvicina, più l’odore diventa insopportabile.
Ci sono persone, tra cui molti bambini, che scalano le montagne di spazzatura aiutandosi con le mani. Dormono tra la spazzatura. Pregano tra la spazzatura. E con i rifiuti hanno costruito un piccolo altare, con due assi inchiodate tra loro per formare una croce bianca. La discarica è controllata da bande criminali e per entrare serve il permesso dei boss: la visita dura due ore e si può visitare solo in compagnia di un sorvegliante.
Sulle montagne di rifiuti troneggiano, come statue spettrali, i marabù che si cibano di carcasse. Gli uccelli, che ci arrivano alla cintura, tengono strette al corpo le enormi ali. A rovistare tra i rifiuti ci sono anche mucche e maiali. Un po’ dappertutto si vedono dei piccoli fuochi spontanei causati dai prodotti chimici tossici che s’incendiano per il calore. Javan, 28 anni, non vuole rivelarci il suo cognome. Un tempo passava tutta la giornata nella discarica, proprio nel punto dove una ruspa sta scaricando nuovi rifiuti. Aveva cominciato a lavorare lì a dodici anni ed è riuscito a tirarsene fuori solo di recente. I lavoratori della discarica hanno il permesso di tenere per sé i resti alimentari e l’alluminio, ci spiega Javan. Plastica e materiali elettronici, invece, vanno consegnati ai boss. Oggi lui lavora per il movimento Dandora community justice center, che ultimamente ha cominciato a studiare gli effetti della discarica sulla salute di chi vive là intorno: molti soffrono di malattie della pelle e polmonari, di asma ed emicranie.
Nella discarica arrivano anche scarpe e vestiti contenuti nelle balle di rifiuti che l’Europa non riesce a riciclare. In poco tempo riempiamo vari sacchetti di scarpe di marchi occidentali usate e ammuffite, che esaminiamo per la nostra inchiesta. Sono talmente contaminate dalle sostanze chimiche della discarica da essere ormai inservibili. Più del 70 per cento dei capi d’abbigliamento e delle calzature che si buttano via nel mondo va a finire in Africa e, secondo le stime degli esperti, la metà è inutilizzabile. L’Europa non riesce a riciclare i suoi rifiuti. Esportandoli in Africa, contribuisce a intossicare la popolazione e l’ambiente. ◆sk
Gli autori di questo articolo sono Manuel Daubenberger, Benedikt Dietsch, Anne Kunze, Karsten Polke-Majewski, Felix Rohrbeck e Christian Salewski.
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Questo articolo è uscito sul numero 1444 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati