“Shireen Abu Akleh, Al Jazeera,
Ramallah, Palestina”. All’epoca della seconda intifada, all’inizio degli anni duemila, Shireen Abu Akleh concludeva i suoi servizi con questa formula ritmata, che ha accompagnato la mia generazione. Svegliandomi con la notizia della sua uccisione l’11 maggio, ho pensato che quella cantilena non avrebbe avuto lo stesso effetto sulle persone che non la conoscevano. Ma mi sbagliavo.

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Mentre scrivo nelle mie orecchie risuona la melodia della voce di Abu Akleh. I social network sono stati subito inondati di sue citazioni, dei ricordi di chi provava a imitarla e di considerazioni sul potere delle sue parole. “Ho scelto il giornalismo per stare vicino alle persone. Potrebbe non essere facile cambiare la realtà, ma almeno posso trasmettere al mondo le loro voci. Io sono Shireen Abu Akleh”, aveva detto una volta. Era la nostra messaggera, la nostra lingua collettiva, le nostre corde vocali. Con la notizia della sua uccisione, un’intera generazione ha rivissuto l’esperienza di ascoltarla durante uno dei momenti più traumatici della storia palestinese, che sembra ripetersi all’infinito.

Sentimento di unità

Quello che è successo non è sconvolgente. Più di cinquanta giornalisti sono stati uccisi dalle forze di occupazione dalla fine della seconda intifada. Il lutto è caduto negli stessi giorni della 74ª commemorazione della nakba (“catastrofe”, in arabo), la cacciata dei palestinesi dalle loro terre in seguito alla nascita d’Israele nel 1948. Ma riportava anche indietro di un anno al tentativo dei coloni, sostenuti da soldati israeliani, di allontanare alcune famiglie palestinesi dalle loro case nel quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est.

In quell’occasione per la prima volta da decenni la mia generazione, cresciuta all’ombra della seconda intifada, ha provato un sentimento di unità che sembrava perso. Tutti i frammenti della comunità – i profughi nella diaspora, i palestinesi che vivono in Israele, gli abitanti di Gerusalemme, di Gaza e della Cisgiordania – hanno cominciato a ricongiungersi mentre il sistema di apartheid si incrinava.

Esattamente un anno fa, in un articolo scrivevo: “Il dolore di non essere ascoltati brucia più della consapevolezza del rischio di morire”. Era stata la cosa più difficile da scrivere. La cosa più tremenda da ricordare delle esperienze della seconda intifada è il silenzio.

Ripensando alle parole di Shireen Abu Akleh, mi stupisce la forza dei suoi polmoni. Ha continuato a parlare e a darci ossigeno per venticinque anni, anche se in pochi stavano ad ascoltare. Parlare senza un pubblico dev’essere stato incredibilmente duro e alienante, ma lei perseverava, con corde vocali inossidabili e polmoni che contenevano aria per tutti.

Lo scorso anno abbiamo visto segnali di cedimento strutturale, crepe negli argini. Amici ebrei cresciuti negli Stati Uniti hanno capito che potevano avere un rapporto con l’ebraismo a prescindere dallo stato d’Israele. Molti più ebrei israeliani hanno cominciato a farsi sentire sui social network, prendendo le difese dei palestinesi pubblicamente per la prima volta. Accademici e artisti di tutto il mondo hanno manifestato un sostegno mai visto alla campagna Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds). Giovani palestinesi si sono attivati per costruire forme di governo alternativo, scrivendo manifesti politici e organizzandosi con campagne municipali e altro.

Come notava in quel periodo l’intellettuale palestinese Noura Erakat: “Stiamo sfondando la diga, continuate a spingere”. Si sentiva l’acqua sgocciolare e si scorgevano piccoli smottamenti del sistema. La maggior parte delle crepe era il risultato del lavoro della generazione allevata da Shireen Abu Akleh.

Dalla stampa araba
Senza mai tirarsi indietro

Sui giornali mediorientali sono stati pubblicati molti ricordi di Shireen Abu Akleh e commenti e analisi sulla sua uccisione. Al Jazeera, il network per cui lavorava la giornalista, le ha dedicato vari approfondimenti e ha coperto in modo particolare il suo funerale. In un articolo Marwan Bishara racconta che Abu Akleh “era nata nel cuore della Palestina, a Gerusalemme, subito dopo la guerra del 1967 e l’occupazione israeliana”, in una famiglia cristiana proveniente da Betlemme. Nel 1997 aveva cominciato a lavorare per Al Jazee­ra, “gettando luce su un periodo oscuro, sempre generosa, senza mai tirarsi indietro”.

Sul sito libanese Daraj lo scrittore palestinese Majed Kili paragona la giornalista a icone della lotta palestinese come il leader Yasser Arafat o il poeta Mahmoud Darwish. Per Kili l’attacco della polizia al suo funerale dimostra come “la cosa che Israele teme di più sia l’unità del popolo palestinese”, dotato dell’arma più forte di tutte, cioè “la fede nei suoi diritti”.

Anche per la ricercatrice Randa Abdel-Fattah Israele colpisce i giornalisti che lavorano in Palestina per “mettere a tacere la solidarietà e la resistenza palestinese”. Su Al Araby al Jadid scrive: “In Palestina denunciare il regime di occupazione israeliano, il colonialismo e l’apartheid significa chiedere un’assunzione di responsabilità. Questo spiega perché Israele – una potenza nucleare sostenuta dai governi occidentali – non esiti a eliminare, attaccare e imprigionare regolarmente i giornalisti palestinesi che cercano di documentare i crimini israeliani e costringere il regime a darne conto”.

Su Al Quds al Arabi lo scrittore e intellettuale libanese Elias Khoury commenta: “Shireen Abu Akleh non è la prima martire e non sarà l’ultima. Fa parte di un percorso di morte che genera vita. Per vivere, bisogna affrontare la morte. Questa è l’unica opzione per i palestinesi”. ◆


Abu Akleh aveva studiato architettura, una disciplina al servizio di poche persone, ma si era rifiutata di restare in questo ambito. Credo che avrebbe apprezzato l’idea di strutture fatte dagli esseri umani che crollano, mentre le nostre voci dilagano.

Durante l’ultimo anno ci siamo chiesti se c’era una dissonanza tra un modo nuovo di rappresentare il conflitto, che ci porta momenti di grande felicità (come scoprire che uno sconosciuto nella metropolitana di Londra sa dove si trova Jenin), e la realtà sul terreno: gli espropri in aumento, gli omicidi, i bombardamenti su Gaza.

Cori e applausi

Ma cosa succede dopo che la diga si rompe? Si allagano i campi, la natura soffre. Ma, lentamente, la terra assorbe l’acqua e nuove piantine spuntano dai semi. In una recente conversazione con Erakat, lo studioso di movimenti civili Marshall Ganz si chiedeva come portare il cambiamento dalle parole alla pratica. Lui insisteva sul fatto che la comprensione deve seguire l’azione, e non viceversa.

Shireen Abu Akleh ne è la prova. Il suo funerale è un testamento dell’effetto che la sua voce ha avuto sul terreno. Centinaia di migliaia di persone da tutto il paese sono arrivate a Gerusalemme il 13 maggio, reclamando la città come palestinese. Hanno issato le bandiere senza paura, nonostante la brutalità con cui la polizia israeliana ha attaccato la bara, perché era avvolta in quella bandiera.

Centinaia di persone si sono riunite per una veglia a Londra il 12 maggio. Un bambino di sei anni, circondato da donne vestite di nero con gli occhi gonfi, ha preso il megafono e puntando il dito verso le donne, ha detto: “Tu sei Shireen, tu sei Shireen, io sono Shireen!”.

L’omicidio della giornalista, un errore enorme dell’occupazione, risuonerà per un’altra generazione. L’esperienza acustica vissuta un anno fa è stata viscerale: cori, clacson, grida, applausi, canzoni e lamenti si sono sentiti in tutti gli angoli del mondo per settimane. Oggi quei rumori risuonano ancora di più. La voce di Shi­reen Abu Akleh riecheggia più forte, la nostra voce l’accompagna, e la crepa nella diga si allarga.

“Ho scelto il giornalismo per stare vicino alle persone. Potrebbe non essere facile cambiare la realtà, ma almeno posso trasmettere al mondo le loro voci. Io sono Shireen Abu Akleh”. Attraverso il suo impegno e quello di molti altri come lei è possibile cambiare la realtà. ◆ dl

Dima Srouji è un’architetta e artista palestinese che lavora su progetti legati alla politica e ai luoghi, soprattutto in Palestina. Vive tra Londra e la Palestina.

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Questo articolo è uscito sul numero 1461 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati