Livia Umbelino, 32 anni, ha studiato da assistente sociale nella sua Rio de Janeiro, imparando i metodi e le responsabilità di chi lavora per migliorare la vita delle persone. Emigrata in Irlanda cinque anni fa, da allora non ha potuto più svolgere le mansioni in cui è specializzata, perché i suoi titoli di studio non sono stati riconosciuti dalle autorità locali. Per mantenersi, Umbelino ha trovato lavoro in una casa di riposo, e di recente ha cominciato anche a occuparsi di protocolli sanitari e di sicurezza per il produttore di microchip statunitense Intel. “Per me sono occupazioni temporanee”, spiega. “Non è quello che voglio fare. Ma per ora va bene”.

L’esperienza di Umbelino è simile a quella di molti immigrati in Europa con un titolo di studio non riconosciuto nel paese di arrivo. Sono vittime di un fenomeno chiamato “spreco dei cervelli”. Alcuni si ritrovano a svolgere un lavoro per il quale sono troppo qualificati e per meno ore di quelle che vorrebbero, altri lavorano saltuariamente o restano disoccupati.

Un’inchiesta condotta dall’organizzazione olandese Lighthouse reports in collaborazione con il Financial Times, El País e Unbias the News ha rivelato che la maggior parte dei paesi europei non offre opportunità di lavoro adeguate agli immigrati più istruiti, pagando un prezzo potenzialmente elevato in termini di forza lavoro e sviluppo economico. I risultati dell’inchiesta, basata su un sondaggio condotto nell’Unione europea tra il 2017 e il 2022, indicano che quasi metà degli immigrati in possesso di una laurea svolge lavori che non richiedono quel titolo di studio, mentre tra i laureati locali la percentuale scende sotto il 30 per cento. Nonostante una diffusa carenza di lavoratori qualificati, tra gli immigrati laureati il tasso di disoccupazione è quasi doppio rispetto agli altri.

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Il costo economico è alto: l’inchiesta della Lighthouse reports ha stabilito che in media gli immigrati laureati guadagnano duemila euro all’anno in meno degli altri cittadini con caratteristiche e titoli simili. Se escludiamo il Regno Unito, la Germania e i paesi nordici (per i quali non ci sono dati disponibili), il totale ammonta a 10,7 miliardi di euro di entrate perdute, cioè lo 0,12 per cento della somma del pil dei paesi presi in esame.

“Lo ‘spreco di cervelli’ è un problema serio per i governi europei”, spiega Friedrich Poeschel, ricercatore del Migration policy centre all’European university institute, in Italia. “Un immigrato altamente qualificato può sfruttare le sue abilità e costruirsi una carriera? Quanti di loro decidono di andarsene perché frustrati? Nei casi peggiori qualcuno resta disoccupato a lungo e a carico dell’assistenza sociale, cosa che i politici vorrebbero evitare. Ma il problema è che per loro gli immigrati servono solo a tappare i buchi in settori specifici”.

L’inchiesta ha rivelato che lo spreco di cervelli varia sensibilmente nelle diverse aree dell’Europa. La situazione è particolarmente grave in Italia, Grecia, Spagna e Svezia. L’analisi condotta in Irlanda, Portogallo e Svezia illustra i diversi effetti delle barriere e delle opportunità lavorative nei paesi ospitanti.

Gli insegnanti sono un buon esempio di lavoratori altamente qualificati di cui i paesi europei hanno un enorme bisogno, perché è un lavoro reso generalmente poco attraente dagli stipendi bassi e dallo stress eccessivo. Oggi più della metà dei migranti in possesso di una laurea del settore pedagogico non lavora nelle scuole. Quasi metà dei paesi presi in esame dall’inchiesta presenta livelli elevati di spreco dei cervelli tra gli immigrati in possesso di un titolo per insegnare, soprattutto rispetto ai non immigrati.

Il caso di Katie, insegnante di scuola materna proveniente dagli Stati Uniti, è uno dei tanti esempi. Con una laurea in pedagogia dell’infanzia e vent’anni d’esperienza alle spalle, Katie si è trasferita nel sudovest dell’Irlanda nell’agosto 2023 insieme al suo compagno irlandese e alla figlia in età da scuola materna. “Ho il permesso di vivere qui e sono tecnicamente autorizzata a lavorare, ma non al livello della mia formazione professionale”. Otto mesi dopo il suo arrivo in Europa, Katie faceva ancora la baby sitter, scontrandosi con la burocrazia “pignola” ed “estenuante” nel tentativo di ottenere il riconoscimento dei suoi titoli. Quando ha superato il primo ostacolo – riuscendo a ottenere un codice del Teaching council indispensabile per lavorare in una scuola primaria – ha potuto presentarsi solo come supplente.

Di contro, tutti gli sforzi per ottenere il riconoscimento delle sue qualifiche sono stati labirintici. “Hanno continuato a scrivermi email assurde perché avevo indicato come referente un vicepreside invece di un preside. Hanno detto che non andava bene, a meno che non avessi avuto un codice irlandese del Teaching council. Be’, non posso averlo, perché vengo da un altro paese!”. Katie sottolinea che per le comunicazioni “è necessario un timbro scolastico, ma negli Stati Uniti è tutto molto più semplice”.

In Irlanda, dove quasi due terzi delle scuole secondarie analizzate dal Teachers’union of Ireland hanno carenze nell’organico, gli insegnanti qualificati provenienti dall’estero devono seguire un percorso molto più complicato di quello degli abitanti del posto in possesso di un titolo equivalente. La probabilità di ricoprire un incarico per il quale sono troppo qualificati è tripla, mentre quella di lavorare nel settore della propria formazione è cinque volte minore. “Alla radio hanno detto che non capiscono perché non riescono a trovare i supplenti di cui c’è tanto bisogno”, racconta Katie. “Ma il problema è che per le persone straniere qualificate o anche sovraqualificate è molto difficile ottenere questi posti di lavoro”.

Alcune barriere sono specifiche della situazione irlandese: a Katie è servito un corso di studi religiosi e uno di lingua irlandese per insegnare nelle scuole elementari cattoliche. Ma in generale le stesse dinamiche si ripresentano in altri paesi europei, tra cui l’Austria, l’Italia e i Paesi Bassi.

Belfast, Irlanda del Nord, 30 marzo 2023 (Andrew Testa, The New York Times/Contrasto)

Il mancato riconoscimento dei titoli di studio esteri non colpisce solo gli insegnanti. L’inchiesta della Lighthouse reports ha riscontrato che in tutti i settori e in quasi ogni paese esaminato gli immigrati con un titolo di studio straniero incontrano difficoltà maggiori rispetto a quelli che l’hanno conseguito nel paese ospite. Le persone che riescono a ottenere il riconoscimento dei titoli trovano con maggiore facilità un lavoro adeguato alle proprie capacità. Se tra gli immigrati in possesso di una laurea riconosciuta il 39 per cento svolge un lavoro per cui è troppo qualificato, la percentuale sale al 56 per cento tra quelli che ancora non sono riusciti a farne riconoscere la validità. Per il momento Katie continuerà a lavorare come baby sitter, ma spera di tornare in classe l’anno prossimo: “Ho il permesso di vivere qui e sono tecnicamente autorizzata a lavorare, ma non al livello della mia formazione professionale. Potrei trovare un impiego in un negozio o in un bar, ma io voglio lavorare nel mio campo”.

Il caso portoghese

Il fenomeno dello spreco di cervelli non colpisce tutti i paesi allo stesso modo. Quattro anni fa Thaissa Santos ha deciso di cambiare vita trasferendosi in Portogallo con il marito e i figli. Nel suo paese, il Brasile, Santos ha studiato odontoiatria e si è specializzata in campo pediatrico. A differenza della maggior parte dei brasiliani che emigrano in Europa e negli Stati Uniti, non è stata spinta da motivi economici ma “soprattutto familiari”, per stare vicina ai genitori, andati a vivere in Portogallo dopo la pensione. Per lavorare come dentista ha dovuto completare un corso di un anno in un’università portoghese, dove ha conseguito un titolo equivalente alla sua laurea brasiliana. Successivamente ha dovuto richiedere una licenza all’Associazione dei dentisti, un procedimento a cui ha dedicato altri tre mesi. Quando ha finalmente ottenuto i documenti necessari, ha scoperto che in Portogallo era molto facile trovare lavoro come dentista: “Ho cominciato a inviare il curriculum e ho ricevuto subito diverse offerte. Alla fine ho scelto il posto di lavoro più vicino a casa”.

In Portogallo le storie di successo degli immigrati laureati sono più frequenti che in altri paesi europei. L’inchiesta della Lighthouse reports ha rilevato che nel paese più povero dell’Europa occidentale gli immigrati laureati hanno meno probabilità di ricoprire un ruolo per cui sono troppo qualificati o di essere disoccupati o saltuariamente occupati. Il successo risulta ancora più evidente facendo il paragone con gli altri paesi dell’Europa meridionale. In Spagna, Italia e Grecia più della metà degli immigrati laureati è sovraqualificata, mentre in Portogallo la percentuale non supera il 39 per cento.

Inoltre in Portogallo emerge una maggiore uguaglianza tra i laureati immigrati e quelli locali, che spesso lavorano nello stesso settore. In cima alla lista figurano gli insegnanti, gli infermieri, gli ingegneri e gli esperti di finanza. In Spagna, Italia e Grecia, invece, gli immigrati laureati lavorano soprattutto come addetti alle pulizie e cassieri.

Il Portogallo è una destinazione allettante anche per chi ha una formazione tecnica: gli immigrati laureati in scienze, informatica e matematica hanno molte probabilità di trovare un posto di lavoro adatto alle loro qualifiche, con percentuali di occupazione simili a quelle dei laureati locali. Sinem Yilmaz, esponente del Migration policy group, sottolinea i meriti delle politiche introdotte dal governo portoghese per favorire la nascita di startup, con normative allettanti e permessi di soggiorno per gli investitori e gli imprenditori. “Il Portogallo sa bene come sfruttare l’immigrazione qualificata. L’attenzione riservata all’industria tecnologica è stata un elemento importante della ripresa economica dopo la crisi finanziaria. Esistono settori con un mercato del lavoro flessibile, che può accogliere lavoratori qualificati e provenienti da contesti diversi”. Secondo Yilmaz questa apertura ha creato un’atmosfera in cui “le ong e le associazioni sono intraprendenti e generano molte occasioni interessanti per gli immigrati. La realtà delle startup è molto attiva, soprattutto a Lisbona”.

Anche la lingua è un aspetto rilevante nel successo del Portogallo. Come Santos, molti immigrati arrivano nel paese parlando già un perfetto portoghese, perché provengono dal Brasile o dall’Africa lusofona. Ma lo stesso discorso non vale per la Spagna e la Francia, due paesi con una grande popolazione di immigrati che parlano spagnolo o francese.

Competenza ignorata
Quota di laureati che fanno lavori per i quali sono troppo qualificati, selezione di paesi, % (Fonte: europeanlabour force survey, 2017-2022)

Un altro fattore importante è la capacità del governo portoghese di riconoscere i vantaggi per l’economia generati dai lavoratori stranieri. Quest’attenzione ha prodotto politiche nazionali che sostengono i nuovi arrivati con corsi di lingua e programmi di assistenza e formazione in campo commerciale. “Non solo hanno un piano, ma lo attuano e stanno cercando di migliorarlo”, spiega Yilmaz. “È un atteggiamento positivo assente nella maggior parte degli altri paesi europei quando si parla di integrazione”. Yilmaz riconosce l’importanza dell’impegno del governo portoghese a favore dell’integrazione nel mercato del lavoro, ma aggiunge che si tratta solo di un primo passo. “Le politiche antidiscriminatorie sono fondamentali, ma lo stesso vale per il multiculturalismo. Solo una strategia globale può risultare efficace”.

Nonostante l’ascesa del partito di estrema destra Chega, in Portogallo l’ostilità nei confronti degli immigrati è minore che in altre zone del continente. Uno studio condotto nel 2021 in tutti i paesi dell’Unione europea ha rilevato che il 73 per cento dei portoghesi giudicava positiva l’integrazione degli immigrati nelle comunità locali, mentre al livello europeo la media non superava il 42 per cento. Alla Clínica de Santa Madalena, una struttura alla periferia di Lisbona, Santos non si è mai sentita particolarmente discriminata. “Sono molto felice del posto in cui lavoro”, spiega.

Rifugiati in Svezia

Un aspetto rilevante della questione è lo status di rifugiato. L’inchiesta della Light­house reports ha rilevato che tra i richiedenti asilo il fenomeno è ancora più frequente. Soprattutto nei paesi del continente dove si concentra la popolazione in crescita dei rifugiati. Come la Svezia, dove il numero è raddoppiato negli ultimi dieci anni. Nel 2022 nel paese scandinavo vivevano 265 rifugiati ogni diecimila residenti, contro una media europea di 150. Nonostante evidenti aspetti positivi – a cominciare dal secondo tasso di naturalizzazione più alto dell’Unione e dalle solide leggi per l’integrazione – i laureati arrivati in Svezia per ragioni umanitarie hanno il triplo delle probabilità di essere disoccupati rispetto a quelli che sono stati spinti da motivazioni economiche.

Il fenomeno ha diverse cause. In molti paesi, per esempio, i richiedenti asilo sono costretti ad aspettare per mesi un permesso di lavoro, spesso fino a quando le autorità non completano l’esame della loro pratica. Questo significa che restano per molto tempo fuori del mercato del lavoro. Inoltre, per chi è fuggito da un paese dove le istituzioni sono al collasso è difficile poter dimostrare di avere una laurea. Quando la ragione principale dell’immigrazione è la ricerca della sicurezza, è meno probabile che abbiano qualifiche riconoscibili nel paese ospite, soprattutto considerando che spesso non ne parlano la lingua.

Le difficoltà linguistiche creano un doppio inconveniente: oltre a limitare le opportunità lavorative, riducono anche la possibilità di stabilire contatti con gli abitanti. In Svezia gli immigrati laureati che non parlano bene lo svedese hanno il triplo di probabilità di essere disoccupati rispetto a quelli che hanno dimestichezza con la lingua.

Il razzismo è un altro fenomeno che penalizza queste persone. Le ricerche di Nahikari Irastorza e Pieter Bevelander, dell’università di Malmö, hanno riscontrato che i gruppi di migranti più svantaggiati, a prescindere dal livello d’istruzione, sono quelli “provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, che quasi sempre entrano in Svezia come richiedenti asilo”. La ricerca della Lighthouse reports ha rilevato una tendenza simile in gran parte dei paesi europei: i migranti del cosiddetto sud globale (Africa, Asia e America Latina) sono più coinvolti nello spreco di cervelli rispetto a quelli provenienti dai paesi più ricchi. Il Portogallo è un’eccezione.

Il successo relativo del Portogallo, tuttavia, sembra aver ispirato parte della nuova strategia migratoria dell’Unione europea, che vorrebbe sveltire le procedure per il riconoscimento dei titoli di studio e favorire l’assistenza per chi vuole avviare un’attività commerciale. Ma se non saranno introdotti cambiamenti di rilievo, gli immigrati istruiti come Umbelino continueranno a fare per anni lavori “completamente diversi” da quelli per cui hanno studiato. La giovane assistente sociale non ha rinunciato all’idea di ottenere il riconoscimento dei suoi titoli: “So che è difficile, ma quando finalmente accetteranno la mia richiesta cercherò un lavoro nel mio campo. Potete scommetterci”. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1572 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati