Editoriali

Una nuova guerra commerciale

La Repubblica Popolare Cinese è l’economia pianificata di maggiore successo al mondo e potrebbe essere anche la prima a provocare seri danni all’economia di mercato. Per questo l’offensiva del governo statunitense, che ha imposto nuovi dazi sulle merci importate dalla Cina, non è una schermaglia tra sostenitori di teorie economiche diverse ma si colloca all’interno di una concorrenza brutale: tra le due potenze è scoppiata una guerra commerciale alla quale il resto del pianeta non ha modo di sottrarsi. Nel 2014 il governo cinese aveva lanciato il Made in China 2025, un piano strategico nazionale in base al quale, nel giro di dieci anni, il paese sarebbe dovuto diventare indipendente da tecnologie e forniture straniere in dieci settori fondamentali.

Nel 2024, a sei mesi dalla scadenza di quel piano, Pechino non solo ha raggiunto l’obiettivo, ma ha anche completamente ribaltato la situazione: inonda il mercato internazionale con i suoi prodotti, che dal 2015 sono sovvenzionati dal settore bancario controllato dallo stato, , distorcendo la concorrenza. Il presidente Joe Biden ha imposto pesanti dazi per 18 miliardi di dollari su merci come auto elettriche, pannelli solari, dispositivi sanitari, acciaio e terre rare. Può sembrare una misura relativamente modesta rispetto ai dazi per 300 miliardi di dollari decisi dall’amministrazione di Donald Trump, ma in realtà è diretta proprio contro quelle tecnologie chiave che potrebbero scatenare la prossima crisi industriale negli Stati Uniti.

Per Biden non si tratta semplicemente di fare campagna elettorale: è una questione di principio. Perché la Cina – come d’altronde hanno fatto anche gli Stati Uniti – ha piegato, deformato e violato le regole del commercio internazionale.

Per l’Unione europea è il momento della verità. Più ancora degli Stati Uniti, infatti, l’Europa è vittima dell’aggressività commerciale cinese. Dopo le elezioni europee di giugno, la Commissione europea e gli stati dell’Unione dovranno dare la loro risposta. E Biden gli ha appena fornito una bozza. ◆ sk

Meloni vuole controllare la Rai

Lo sciopero dei dipendenti della Rai contro le ingerenze del governo di Giorgia Meloni è la risposta logica di un gruppo di professionisti decisi a proteggere l’indipendenza di un’istituzione molto influente nella società italiana.

Da quando è diventata presidente del consiglio nell’ottobre 2022, Meloni vuole condizionare i mezzi d’informazione e, per quanto possibile, controllare ciò che dicono sull’azione del suo governo.

Porta avanti questa missione sostenendo falsamente che per anni l’estrema destra e la destra sono state emarginate sia nella stampa sia nel mondo della cultura.

Fin dalla proclamazione della repubblica, nel 1946, l’Italia è caratterizzata da un forte pluralismo politico, che in molte occasioni l’ha resa poco governabile e in alcuni casi ha causato la paralisi della politica.

Questa diversità è emersa anche nelle istituzioni, compresa la Rai. L’emittente pubblica è finita spesso al centro di polemiche e contrasti, ma mai prima d’ora erano stati raggiunti gli attuali livelli d’interferenza, neanche durante i governi guidati da Silvio Berlusconi.

Il governo di coalizione formato da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia ha trasformato l’appartenenza ideologica nel primo requisito per accedere ai posti di responsabilità nella radio e televisione pubblica, manifestando inoltre l’intenzione di supervisionare i contenuti. I giornalisti denunciano tentativi di manipolazione, di occultamento delle notizie e pressioni di ogni tipo per modificare le informazioni favorendo gli interessi del governo.

La Rai non è l’unica a trovarsi nell’occhio del ciclone. Meloni è pronta a vendere la seconda agenzia di stampa del paese (l’Agi, dell’azienda energetica Eni, di cui lo stato italiano detiene il 35 per cento) a un imprenditore e deputato di estrema destra della Lega, alleata del governo.

Entrambe le operazioni vanno nella stessa direzione: mettere fine a qualsiasi pluralismo nelle istituzioni pubbliche. Ma i giornalisti non sono disposti ad accettarlo. ◆ as

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1563 - 17 maggio 2024
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