È passato qualche giorno da quando un palestinese armato proveniente dal campo profughi di Jenin ha aperto il fuoco contro un bar in via Dizengoff, nel centro di Tel Aviv, uccidendo tre persone e ferendone molte altre. Guardare le scene caotiche di quella notte, con migliaia di poliziotti e soldati che perlustravano le strade alla ricerca del colpevole, rintracciato e ucciso ore dopo, mi ha fatto sentire dolore e disperazione, tristezza e nostalgia. I morti potevano essere miei amici o familiari. Potevo essere io.
Quelle sensazioni sono peggiorate nei giorni seguenti. Il 9 aprile le forze di sicurezza israeliane hanno condotto un’incursione a Jenin e dintorni, nel nord della Cisgiordania, dove continuano a scontrarsi con i militanti palestinesi. Quella notte una folla di palestinesi ha vandalizzato e incendiato la tomba di Giuseppe a Nablus, prima di essere dispersa dalle forze di sicurezza palestinesi. La mattina dopo i soldati israeliani hanno ucciso una palestinese disarmata, madre di sei figli, a Husan, in Cisgiordania, sostenendo che si fosse avvicinata in “modo sospetto”. La violenza aumenta ogni giorno. L’attacco in via Dizengoff è stato il quarto in una città israeliana in tre settimane, dopo le uccisioni a Beer Sheva, Hadera e Bnei Brak, in cui sono morte in tutto quattordici persone. I politici israeliani, sostenuti dai principali mezzi d’informazione, hanno subito chiesto misure ancora più dure contro i palestinesi – sia i cittadini di Israele sia quelli sottoposti a dittatura militare nei territori occupati – nel nome del ripristino della sicurezza.
Le dichiarazioni bellicistiche sono vecchie e abusate, un rituale vuoto
L’altra metà
Per questi politici, però, sicurezza non significa salvare vite o proteggere i civili, ma mantenere e controllare un ordine sociale e politico, oltre alla distribuzione di risorse e privilegi per gli ebrei israeliani. È una copertura per una più profonda ideologia di colonizzazione ed espropriazione. È una promessa violenta che le autorità non possono mantenere, anche se la maggioranza degli israeliani la prende per buona.
A Israele non interessa la sicurezza dei suoi cittadini palestinesi, che da anni implorano il governo di fare qualcosa contro la violenza armata e il crimine organizzato che affliggono le loro comunità. Lo stato interviene solo quando le armi sono usate contro i cittadini ebrei. Non gli interessa la sicurezza che deriva dalla stabilità abitativa e lavorativa delle classi emarginate dei mizrahi (gli ebrei provenienti dai paesi arabi) e degli etiopi nelle periferie (spesso vittime di soprusi e brutalità della polizia). E, naturalmente, a Israele non importa la sicurezza dei palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gaza, dove vivono nel costante timore per la propria vita, assediati da un esercito straniero che ricopre i ruoli di giudice, giuria e boia. La sicurezza non riguarda né loro né i loro fratelli palestinesi in esilio forzato: anzi, si realizza a loro spese.
La verità è che solo poche persone (anche se si finge il contrario) credono davvero che Israele possa garantire la sicurezza con questi mezzi violenti. Molti ex generali e dirigenti dei servizi segreti israeliani hanno ammesso che mantenere milioni di persone sotto un sistema garantito dalla forza non potrà mai assicurare la sicurezza nel lungo periodo. Ma le élite politiche, militari e culturali di Israele ignorano questi avvertimenti. Anzi, la popolazione ebraica, godendo dei vantaggi di questa situazione, ha creato una bolla psicologica in cui non c’è alcun interesse per “come vive l’altra metà”. La bolla è scossa solo quando un razzo, un coltello o una pistola sono rivolti contro di noi dall’“altra parte”, costringendoci a ricordare milioni di persone che vivono sotto i nostri piedi.
Chi oggi escogita punizioni nuove e creative per la società palestinese dopo l’attacco a Tel Aviv sa che i suoi sforzi non sono soluzioni, ma fasi di una routine deprimente. Dopotutto c’è un motivo per cui espressioni come “falciare il prato”, “marchiare la coscienza” e “mostrare chi comanda” sono diventate parte del consenso politico israeliano. Questo “teatro della sicurezza” ha lo scopo di rassicurare la popolazione che la violenza palestinese può essere soffocata con qualche gesto estremo e sanguinoso, la cui forza basterà a terrorizzare i palestinesi a tal punto che la sicurezza potrà essere raggiunta senza la necessità di una soluzione politica. Ma queste dichiarazioni bellicistiche sono vecchie e abusate. Sono un rituale senza sostanza. Qualcuno potrebbe stupirsi del fatto che pur essendo stati aboliti i discorsi sulla soluzione, il problema si è ostinatamente rifiutato di sparire. Finché Israele sceglie questa visione della sicurezza, abbandonando ogni tentativo di “mettere fine al conflitto”, possiamo solo aspettarci più vittime.
Nomi e volti
Mentre le immagini di Tomer Morad, Eytam Magini e Barak Lufan – i tre giovani uccisi mentre si godevano una serata con gli amici – sono trasmesse in tutto il mondo, mi vengono in mente i nomi e i volti che sono stati dimenticati o ignorati. Come Amar Shafiq Abu Afifa, un palestinese di diciott’anni ucciso il 1 marzo da un soldato israeliano mentre faceva un’escursione nel sud della Cisgiordania. O Ismail Tubasi, ucciso e mutilato nel maggio 2021 dai coloni nelle colline a sud di Hebron. O Nader Rayan, colpito a morte a diciassette anni dai soldati israeliani a marzo mentre andava a lavorare a Nablus. La lista di nomi, in grande maggioranza palestinesi, è lunga.
Oltre alla più grave crisi della sicurezza in un anno, il governo israeliano ne affronta anche una politica, scrive Amos Harel su Haaretz. Le dimissioni di Idit Silman, deputata dell’estrema destra religiosa del partito del primo ministro Naftali Bennett, il 6 aprile hanno tolto alla coalizione al governo la maggioranza in parlamento, lasciandola con sessanta seggi, gli stessi dell’opposizione. “Questo renderà molto difficile il lavoro del governo”, commenta Harel, “anzi, sembra che Bennett sia tenuto in ostaggio non solo da ogni singolo parlamentare della knesset, ma anche dal prossimo terrorista”.
Per quanto riguarda gli attentati contro gli israeliani, il quadro che sembra delinearsi sullo sfondo del Ramadan, il mese sacro dell’islam, “è quello di assalti guidati da lupi solitari e piccole cellule”, in cui la componente centrale è “l’emulazione”. Per ora “non ci sono segni della diffusione di una protesta popolare violenta in Cisgiordania”, continua Harel. Le cose potrebbero cambiare se Israele decidesse di reagire ritirando i permessi di lavoro ai palestinesi, limitando i loro movimenti e soprattutto la libertà di pregare nei loro luoghi sacri a Gerusalemme. D’altra parte il governo “non ha altra scelta se non agire” ora che “i cittadini hanno sentito la loro sicurezza personale scossa dopo anni di relativa tranquillità”.
Secondo Haaretz, Bennett può essere paragonato “al comandante di un’unità d’élite che si ritrova a condurre un’operazione con un gruppo di soldati fisicamente inadatti e demotivati”. Il paese “ha fatto il primo passo verso una situazione che con il ripetersi delle elezioni aveva spinto il governo in uno stallo quasi completo nel 2019-2020. Cinque campagne elettorali in circa tre anni sarebbero un record nazionale”. A beneficiare di questo “tumulto politico” potrebbe essere l’ex primo ministro e leader dell’opposizione Benjamin Netanyhau, che sta cercando di “alimentare la rivoluzione in un momento critico del processo” in cui è accusato di corruzione. ◆
Soffro, non solo per le vite perdute e spezzate, ma anche per l’assenza di una chiara alternativa politica: un percorso in cui palestinesi e israeliani possano trasformare la violenta relazione coloniale che li lega da più di un secolo. Un percorso che sostituisca la contorta gerarchia di privilegio etnico-nazionale e di classe con una sicurezza vera, basata sul vicinato, sul vivere insieme riconoscendo che l’altro non sparirà.
Soffro, ma non voglio che il nostro dolore consenta a Israele – una potenza nucleare che mantiene un sistema di apartheid – di dipingere se stesso come vittima e tutti i palestinesi come antisemiti e assassini. Mi rifiuto di credere che non possiamo creare un’alternativa, in cui palestinesi ed ebrei possano vivere insieme in una realtà non governata da colonialismo, violenza e terrore.
Rifiutiamoci di accettare che la disperazione è inevitabile. Di sentire le vuote promesse e le invocazioni dei guerrafondai. Non scendiamo a compromessi, se non per una vera alternativa, che perfino ora aspetta di emergere. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1456 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati