Due giorni dopo che i taliban avevano preso Herat, la terza città dell’Afghanistan, il giornalista italiano Stefano Liberti ha ricevuto un messaggio su Facebook: “Salve, siamo nei guai. Può aiutarci?”. Era Susan, 21 anni, ex capitana del Bastan, la squadra di calcio femminile al centro di un documentario di Liberti e Mario Poeta. Il calcio è come il cibo per me, avrebbe detto Susan in seguito. E la paura di non poter giocare sotto il dominio dei taliban, “mi ha fatto sentire come se fossi morta”. Come per le altre intervistate, in questo articolo per proteggerne l’identità viene usato solo il nome.

Tredici giorni dopo aver preso contatto con Liberti, Susan è arrivata in Italia insieme a due compagne di squadra, il loro allenatore e alcuni familiari (“Il salvataggio delle calciatrici di Herat e un enorme rimpianto”, Stefano Liberti, intern.az/1Dtz). È stato possibile grazie agli sforzi dei due giornalisti, di una ong di Firenze e di alcuni parlamentari e funzionari dei ministeri della difesa e degli esteri italiani. Il gruppo di Herat, 16 persone, è stato portato in una tendopoli della Croce rossa italiana ad Avezzano, sugli Appennini abruzzesi, dove nelle ultime settimane sono stati messi in quarantena più di 1.400 afgani arrivati nelle ultime settimane in Italia. Susan ha interrotto gli studi universitari in letteratura inglese.

Durante il primo periodo di governo dei taliban le donne non potevano fare sport. E anche dopo che nel 2001 i taliban sono stati estromessi dal potere, fare sport era molto difficile per le donne afgane e per gli uomini che le aiutavano. Nel documentario Herat football club, girato nel 2017 dai due giornalisti italiani, l’allenatore della squadra, Najibullah, raccontava di essere stato minacciato più volte per aver allenato delle ragazze. Con il ritorno al potere dei taliban si teme che quel divieto possa essere introdotto di nuovo e c’è il rischio di rappresaglie contro le atlete.

Khalida Popal, ex capitana della squadra nazionale femminile, ha lasciato l’Afghanistan nel 2011 e ora vive a Copenaghen. Ad agosto ha usato i social network e i grandi mezzi d’informazione per consigliare alle donne che avevano fatto sport in Afghanistan di chiudere gli account sui social e bruciare le divise. “Non hanno nessuno a cui rivolgersi per cercare protezione, a cui chiedere aiuto se sono in pericolo”, ha dichiarato durante un’intervista rilasciata all’agenzia di stampa Reuters.

Un modello da seguire

Anche un’altra delle giocatrici di Herat, Fatema, 19 anni, ha lasciato gli studi universitari, in amministrazione pubblica e scienze politiche. È arrivata in Italia con un fratello, ma suo padre si è sentito male mentre cercavano di farsi largo tra la folla all’aeroporto di Kabul, così lui e sua madre sono rimasti lì. “Mi hanno salutata dicendo: ‘Vai, vai per il tuo futuro, per il calcio, per la tua istruzione’”, ricorda Fatema. La più grande delle tre calciatrici, Maryam, 23 anni, è già laureata in management e ha fatto l’istruttrice di scuola guida a Herat. Si considerava un modello da seguire per le ragazze che vogliono essere auto­nome.

La Federazione italiana giuoco calcio, alcune società di calcio e la capitana della nazionale femminile italiana, Sara Gama, hanno offerto il loro sostegno alle giovani afgane. “In Italia c’è stata molta solidarietà”, dice Liberti. In un caldo pomeriggio Fatema e Maryam hanno fatto una cosa che non avevano mai fatto: hanno preso a calci un pallone insieme a un paio di ragazzi. “È stata una bella sensazione”, dice Fatema. “Non ci guardavano come se stessimo facendo qualcosa di sbagliato”. ◆ bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1427 di Internazionale, a pagina 37. Compra questo numero | Abbonati