Fino a poco tempo fa Antonietta Moccia, una casalinga di 61 anni, nutriva poche speranze sulla possibilità che le autorità italiane affrontassero il problema dello smaltimento illegale dei rifiuti, che da tempo affligge la città dove vive e molti altri comuni a nord di Napoli.
A sua figlia è stata diagnosticata una rara forma di tumore quando aveva cinque anni. In questa zona della Campania molti casi di tumore sono collegati all’inquinamento. Per anni Moccia ha partecipato a manifestazioni, sit-in, e confortato le persone colpite dalla morte prematura dei loro cari. Ma tutto questo è servito a poco. Basta vedere il cumulo di immondizia (detriti edili, oggetti vari e sacchetti di plastica pieni di spazzatura) ammassata in una strada secondaria della sua città, Acerra. “Dobbiamo parlare di meno e agire di più. Se ne parla da anni”, spiega lei.
Il 30 gennaio 2025 la Corte europea dei diritti umani ha espresso una posizione simile a quella di Moccia. Il tribunale ha sottolineato che da tempo le autorità italiane sanno della presenza di discariche illegali in un’area conosciuta come la “terra dei fuochi”, chiamata così perché vi si bruciavano di continuo rifiuti tossici. La corte ha affermato che le autorità locali e nazionali hanno ripetutamente evitato di fare qualcosa. E ha citato un rapporto del parlamento italiano del 1997 in cui si afferma che l’attività illecita era in corso almeno dal 1988. “I progressi sono stati estremamente lenti”, hanno stabilito i giudici, affermando che agli abitanti è stato negato il “diritto alla vita”.
Soluzione collettiva
La corte ha chiesto al governo di prendere misure immediate, fissando una scadenza di due anni prima di valutare i progressi. Abitanti e ambientalisti sperano che la sentenza possa finalmente sbloccare la situazione e favorire il risanamento di una delle aree più povere del paese, dove vivono tre milioni di persone sparse in 90 comuni.
Un rapporto del 2023 pubblicato dall’Istituto superiore di sanità indica che in questa parte della Campania il tasso di mortalità è del 9 per cento più alto rispetto al resto della regione. Chi abita nella terra dei fuochi ha maggiori probabilità di morire a causa di tumori maligni (10 per cento in più) o di malattie dell’apparato circolatorio (7 per cento in più). In alcuni casi le statistiche sono ancora più sorprendenti: nelle donne i tumori al fegato sono il 31 per cento più frequenti della media.
Per ricostruire la fiducia della comunità bisogna seguire le istruzioni della corte
“Speriamo che ci sia un risveglio delle coscienze in tutti i politici italiani”, confida Enrico Fontana, responsabile dell’Osservatorio ambiente e legalità di Legambiente. “Mi auguro che questa sentenza storica inneschi una strategia nazionale a ogni livello per una soluzione collettiva del problema”.
Il ricorso alla corte europea si basa sulle denunce di vari abitanti che hanno chiesto ai giudici di stabilire se l’Italia ha violato l’articolo 2 della Convenzione sui diritti umani, quello sul diritto alla vita e quello dei cittadini a essere informati sull’inquinamento. In seguito altre 4.700 persone hanno depositato una denuncia sugli stessi problemi. La causa andrà avanti se il governo non avvierà una strategia complessiva entro la scadenza fissata dai giudici. La sentenza si basa sul lavoro delle commissioni parlamentari, su studi scientifici, sui rapporti delle organizzazioni ambientaliste e sui pareri degli esperti, che dimostrano che l’area è stata trasformata volutamente in una discarica.
Decenni di ritardi
Secondo gli esperti, diverse aziende italiane e straniere hanno stretto in segreto accordi con la camorra per smaltire illegalmente rifiuti pericolosi a un costo molto inferiore a quello per lo smaltimento legale. La camorra, seppellendo i rifiuti in un territorio che controllava, ha garantito protezione e silenzio.
“È quella che si definisce un’area sacrificale, una comunità vulnerabile dove i redditi e l’istruzione sono bassi, in una terra che si trovava già in gravi difficoltà” a livello economico e sociale, spiega Marco Armiero, storico dell’ambiente, che ha lavorato come consulente per la corte. L’apertura di un inceneritore ad Acerra nel 2009 “ha aggiunto la beffa al danno per una comunità già contaminata” e non ha portato alcun sollievo alla gestione dei rifiuti tossici, aggiunge Armiero. Quindi “queste comunità non si fidano più delle istituzioni”. Secondo lo storico, l’unico modo per ricostruire la fiducia è seguire le indicazioni della corte.

La sentenza chiede all’Italia di istituire “un meccanismo di monitoraggio indipendente e una piattaforma d’informazione pubblica”. I giudici hanno stabilito che è “impossibile individuare le aree da decontaminare”, e ha chiesto una migliore attività di coordinamento tra le istituzioni per affrontare il problema.
“La situazione generale resta preoccupante”, spiega Fabrizio Bianchi, ricercatore dell’istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa. E afferma che il tempo è ancora essenziale, nonostante decenni di ritardi. “Più si va avanti senza avviare un processo di decontaminazione e più si fanno sentire gli effetti negativi”, spiega.
Antonella Mascia, avvocato che rappresenta alcune delle persone che si sono rivolte al tribunale europeo, spiega che raramente prima d’ora la corte aveva presentato all’Italia raccomandazioni così dettagliate, arrivando a fissare la scadenza dei due anni. Dopo questo periodo i giudici si occuperanno anche dei risarcimenti finanziari di chi si è rivolto a loro. “Ma non è una questione di soldi, l’obiettivo è verificare che ci siano state violazioni e quindi favorire un cambiamento. Questo è lo spirito delle denunce”, precisa Mascia. Valentina Centonze, collega di Mascia che lavora ad Acerra, sottolinea che a questo punto il governo italiano dovrà trovare i fondi per accogliere le richieste della corte, in modo da decontaminare il territorio e monitorare la zona, evitando la creazione di nuove discariche. Oggi i rifiuti sono ammassati lungo le strade secondarie della zona. “Per risolvere un problema bisogna investire nelle soluzioni”, sottolinea Centonze.
Agnelli con due teste
I giudici hanno aggiunto che la popolazione non deve più rimanere all’oscuro di ciò che succede nel suo territorio, nel bene e nel male. “Ci deve essere trasparenza su ciò che non è stato fatto e su ciò che si deve fare”, ha affermato Alessandro Cannavacciuolo, 36 anni, ambientalista. Racconta di aver compreso la gravità del problema quando nell’azienda agricola di famiglia sono nati agnelli con due teste, due code o un solo occhio. Le autorità sanitarie locali hanno ordinato l’eliminazione dell’intero gregge.
Lo zio di Cannavacciuolo, Vincenzo, è morto nel giro di poche settimane a causa di un cancro ai polmoni.
All’inizio di febbraio Cannavacciuolo è stato invitato a un incontro organizzato dalla prefettura di Napoli per analizzare il verdetto della corte europea, alla presenza di avvocati, autorità sanitarie, forze dell’ordine e ambientalisti. Ha detto che ci sono state poche proposte concrete: “Tante parole, ma questo territorio ne ha sentite fin troppe”. Abbiamo tentato di sentire le regione Campania, ma senza successo. Cannavacciuolo vuole lottare. “Le nostre radici sono qui. Perché dovremmo abbandonare una terra che ci appartiene? È chi ha inquinato che dovrebbe andarsene”.
Ma c’è anche chi non vede l’ora di partire. Maria D’Alise, 18 anni, conosciuta da tutti come Miriam, aveva appena cinque anni quando le è stata diagnosticata una forma di tumore al cervello che colpisce circa 650 bambini all’anno nell’Unione europea. “Solo ad Acerra, che ha 60mila abitanti, ci sono tre casi”, spiega Moccia, la madre. Oggi D’Alise è guarita, ma continua a subire gli effetti collaterali della terapia. È all’ultimo anno di liceo e dopo la laurea spera di diventare una tatuatrice. Ma non ad Acerra: “Se dovessi avere figli non voglio che vivano un’esperienza come la mia, quindi me ne vado” . ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1602 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati