“Andiamo in Ucraina. Lì potremo vendicarci degli statunitensi che ci hanno traditi!”, dice l’ex soldato afgano Samim in un messaggio vocale inviato sul gruppo WhatsApp ‘Ragazzi e commilitoni’, di cui fanno parte decine di persone. La maggior parte di loro un tempo era nei reparti d’assalto dell’esercito afgano, unità speciali che entravano in azione quando i taliban conquistavano un distretto.
Dopo il ritorno al potere dei taliban e il ritiro della coalizione internazionale nell’estate 2021, questi uomini sono fuggiti in Iran, andando incontro a una vita di frustrazione e povertà. Ma tornare in Afghanistan è fuori discussione: “Ne ho uccisi troppi, i taliban non mi perdonerebbero”, mi dice al telefono Samim, che in realtà non si chiama così e preferisce non rivelare il luogo esatto in cui si trova.
Un suo ex commilitone, che chiameremo Mustafa e ha 26 anni, è rimasto in Afghanistan. Per non essere individuato dal nuovo regime si sposta continuamente tra Kabul e altre località. Dopo vent’anni di guerra, nell’agosto 2021, subito dopo il ritiro delle truppe occidentali, i militanti islamisti hanno riconquistato la capitale afgana. Per Mustafa quei giorni sono stati uno spartiacque. Come molti altri giovani si era arruolato nell’esercito, ricostituito dopo il 2001 con l’aiuto degli Stati Uniti e dei loro alleati. Dopo aver frequentato l’accademia militare di Kabul, aveva fatto velocemente carriera: a poco più di vent’anni faceva parte dei famosi reparti d’assalto. “Eravamo quelli delle missioni impossibili”, racconta.
È fortunato a essere ancora vivo. Molti suoi compagni, quasi tutti giovani come lui, sono morti in combattimento. Negli ultimi giorni della repubblica afgana Mustafa e la sua unità hanno difeso la loro base contro l’avanzata dei taliban, e hanno gettato la spugna solo quando sono venuti a sapere che il presidente Ashraf Ghani aveva lasciato il paese. “Era finita”, commenta Mustafa amareggiato. Lui però è rimasto in Afghanistan sotto falso nome.
Nelle zone in cui ha combattuto è ancora ricercato. Di recente lo ha chiamato al telefono uno sconosciuto: “Dov’è il comandante Qari?”. Mustafa ha capito: Qari era lui. Ha camuffato la voce e ha detto che era morto.
Qari è un termine arabo per indicare chi sa recitare il Corano a memoria. Mustafa è sempre stato un musulmano devoto. Si distingueva per la barba lunga, che spesso disorientava i nemici. “Perché ci combatti, perché proprio tu?”, gli chiedevano i taliban nei momenti di tregua. All’epoca Mustafa sperava ancora che la guerra potesse finire attraverso il dialogo. Gli afgani combattono tra loro da quarant’anni, e il conflitto ha diviso le famiglie. Anche uno dei fratelli di Mustafa per qualche mese ha combattuto con i taliban.
Oggi quelle conversazioni sono lontane anni luce: i taliban hanno vinto la guerra. Una volta tornati al potere hanno annunciato un’amnistia generale per chi faceva parte dell’amministrazione e delle forze di sicurezza: esercito, polizia, servizi d’intelligence. Ma poche settimane dopo era già evidente che non avrebbero mantenuto la parola. Human rights watch e il New York Times hanno documentato la caccia agli ex militari in molte province del paese. Spesso si trattava di soldati delle unità speciali, ancora oggi oggetto dell’odio dei taliban. Tra loro c’era anche Abdullah.
Confidando nell’amnistia, Abdullah aveva deciso di restare nel paese. Alla fine di ottobre degli uomini armati lo hanno trascinato fuori dalla casa di un amico a Nangarhar, la sua provincia d’origine, e gli hanno sparato. Le foto del suo cadavere hanno fatto il giro dei commilitoni di un tempo.
“Come facciamo a fidarci dei taliban se queste cose succedono ogni giorno?”, chiede Mustafa. Negli ultimi mesi il destino di Abdullah è toccato a centinaia di ex soldati. I taliban respingono ogni accusa, sostenendo che l’amnistia è ancora valida. Secondo loro gli omicidi sarebbero opera di cani sciolti o il risultato di faide private. Molti osservatori lo ritengono poco credibile: “È una caccia all’uomo sistematica”, dice l’irlandese Michael Semple, esperto di Afghanistan.
Alcuni degli atalan (vincitori), com’erano chiamati i militari afgani dal governo Ghani, erano sicuri che dopo la presa del potere dei taliban la lotta in Afghanistan sarebbe andata avanti. Effettivamente le milizie del Fronte di resistenza nazionale continuano a combattere, soprattutto nel Panjshir e nel distretto di Andarab. Tra le loro file ci sono anche degli ex militari. Ma ora i taliban sono ben armati, e non c’è nessuna potenza disposta a fornire supporto economico e logistico alle milizie. Perciò molti ex militari hanno lasciato il paese. E ora si preparano a imbarcarsi in una nuova guerra.
“Che altro dovremmo fare? Sappiamo solo combattere, non ci hanno insegnato altro”, dice Samim sul gruppo WhatsApp.Allo sconforto si aggiunge tutta la rabbia accumulata contro chi li ha addestrati: gli statunitensi.
“Ora molti vogliono combattere per la Russia contro l’Ucraina, perché si sentono traditi dal ritiro degli Stati Uniti e vogliono fargliela pagare”, spiega Mustafa.
Di recente i russi si sono messi in contatto con ex soldati e ufficiali afgani. Chi vuole tornare a combattere è il benvenuto nei territori ucraini occupati, e la paga è di tremila dollari al mese. Il fatto che Samim e gli altri combattenti si trovino in Iran, stretto alleato della Russia, è un vantaggio sia per l’esercito russo sia per il famigerato gruppo Wagner, la milizia privata legata al Cremlino e considerata responsabile di numerosi crimini di guerra in Medio Oriente, Nordafrica e ora anche in Ucraina. Sembra che in Iran dei rappresentanti del gruppo Wagner abbiano incontrato alcuni ex militari afgani.
Per gli ex militari arruolarsi è piuttosto semplice: basta andare in un ufficio e riempire un modulo. A fare da mediatori sono degli ex ufficiali afgani, proprio quelli che nell’agosto 2021 hanno contribuito al crollo dell’apparato di sicurezza del paese, disintegrato dalla corruzione. Ora hanno fiutato nuovamente l’odore dei soldi facili.
“Aiutatemi, vi prego. Ho bisogno di arruolarmi in fretta”, scrive un ex soldato sul gruppo WhatsApp di Mustafa. Un altro dice che due ex commilitoni della provincia di Takhar gli hanno consigliato di presentarsi. Secondo Mustafa e altri, sulle liste dei reclutatori ci sono già più di tremila nomi. Anche il generale Abdul Raouf Arghandiwal, un ex funzionario del ministero della difesa afgano che guidava di persona le unità speciali, ha parlato di una cifra simile. Secondo lui il gruppo Wagner vuole arruolare almeno duemila afgani.
Sembra che decine di soldati abbiano già lasciato l’Iran per la Russia. “Stanno andando in guerra”, dice Mustafa. Per lui è dura assistere a questo spettacolo. È convinto che i russi useranno i suoi ex compagni come carne da cannone. Effettivamente i militari afgani fanno comodo a Putin: anche in Russia la guerra in Ucraina è sempre meno popolare, e i morti stranieri fanno meno effetto di quelli russi. Gli ex militari afgani sono ben addestrati, ma la cosa più importante è che a nessuno importa di loro. Gli ex alleati statunitensi li hanno abbandonati, e difficilmente il regime dei taliban andrà in aiuto di questi suoi cittadini.
Nessuna pietà
Jalal Noori, un afgano che vive in Ucraina da 24 anni, non ha nessuna comprensione per chi combatte al fianco dei russi. Noori è un ufficiale dell’esercito ucraino, e dopo l’invasione russa ha combattuto nella regione di Kiev, dove ha assistito a molte atrocità commesse dall’esercito russo. “L’Ucraina è casa mia. Accetto qualsiasi ordine, senza discutere”, dice. Ha combattuto anche nella guerra del Donbass del 2014. Negli ultimi mesi ha raggiunto una certa notorietà sui social network spiegando le sue motivazioni e descrivendo la terribile realtà quotidiana della guerra.
La sua scelta dipende anche dall’esilio dall’Afghanistan: “I russi hanno distrutto casa mia una volta”, dice Noori. “Non lascerò che succeda di nuovo”. Si riferisce all’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979. All’epoca le forze speciali sovietiche attaccarono Kabul per uccidere quello che era stato un alleato di Mosca, il dittatore comunista Hafizullah Amin, e sostituirlo con un regime più compiacente. Così cominciò l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, che sarebbe durata dieci anni. Già in precedenza l’Unione Sovietica aveva avuto un ruolo in Afghanistan: il Partito democratico popolare dell’Afghanistan (Pdpa) era stato sostenuto per anni da Mosca e i suoi dirigenti erano sul libro paga del Kgb. Nel 1978, poco prima dell’invasione sovietica, il Pdpa aveva compiuto un sanguinario colpo di stato e aveva instaurato un regime di terrore.
Quei crimini spinsero centinaia di migliaia di afgani tra le braccia dei mujahidin, i ribelli islamisti sostenuti da Stati Uniti, Arabia Saudita, Pakistan e molti altri paesi. L’occupazione sovietica e la guerra civile costarono la vita a più di un milione di afgani e costrinsero milioni di persone a fuggire. Per molti afgani il golpe del Pdpa e l’occupazione sovietica segnano l’inizio dei conflitti di oggi.
Dopo la fuga, Noori e la sua famiglia hanno sempre vissuto in Ucraina. A febbraio del 2022, quando è cominciata la guerra, la diaspora afgana in Ucraina contava almeno cinquemila persone. Nel corso del tempo molti afgani hanno preso la cittadinanza ucraina e ci sono stati matrimoni misti.
Con la guerra però molti di loro sono stati costretti a fuggire di nuovo. Anche la famiglia di Noori ha lasciato il paese. “Meglio così”, dice “l’afgano”, come lo chiamano i suoi compagni. “Sapendo che sono al sicuro riesco a concentrarmi di più sulla guerra”.
Negli ultimi mesi l’esercito russo ha subìto diverse disfatte, e nelle repubbliche russe della Cecenia e del Dagestan sta nascendo una resistenza contro il reclutamento forzato dei giovani musulmani, motivata anche dalla politica imperialista e antimusulmana di Mosca.
Non è un caso che tra le file degli ucraini combattano ceceni, tatari ed esponenti di altre minoranze musulmane. Molti di loro sono stati cacciati dalle proprie case e sono dovuti fuggire dalla pulizia etnica durante le guerre cecene degli anni novanta e duemila, e nel 2014, quando la Russia ha annesso la Crimea e molti tatari della penisola sono scappati in Ucraina.
Il fatto che dei musulmani “si sacrifichino” per la Russia rattrista Noori, anche lui musulmano devoto: “Chi combatte per Putin di certo non andrà in paradiso”, dice. Il fatto che presto potrebbe trovarsi ad affrontare i suoi compatrioti afgani lo colpisce ancor di più.
Secondo Mustafa e Samim i primi combattenti hanno lasciato l’Iran e sono ormai arrivati in Russia. Dopo un breve addestramento saranno mandati al fronte. Mustafa ha perso i contatti con alcuni ex commilitoni, che non pubblicano più nulla sui social network. Il generale Arghandiwal diceva che già alla fine di ottobre una quindicina di uomini aveva lasciato l’Iran. “Li getteranno semplicemente nel tritacarne”, dice Jalal Noori, che lancia un appello agli ex soldati afgani: “Se volete combattere, unitevi a noi!”.
La notizia degli afgani reclutati da Mosca è arrivata anche alle orecchie dei taliban, che durante un incontro a Kabul hanno chiesto spiegazioni agli ufficiali russi. Questi però hanno negato tutto, come faceva il regime iraniano quando, d’accordo con la Russia, impiegava in Siria milizie di sciiti afgani.
“Secondo i russi sono solo notizie false”, afferma un rappresentante del ministero degli esteri afgano.
Da quando è al potere, il regime dei taliban non è stato ufficialmente riconosciuto da nessun paese, ma ha comunque rapporti con alcuni stati, tra cui la Russia. È difficile dire quanti siano gli afgani che come Jalal Noori combattono sotto la bandiera ucraina. “Mio figlio vuole difendere il suo paese e io lo capisco”, dice Mohammad Ahmadi di Odessa, una città che negli ultimi decenni ha accolto molti afgani. Poco dopo il suo arrivo Mohammad ha sposato un’ucraina. Il figlio della coppia fa il poliziotto e ora combatte contro gli invasori russi.
Per la maggior parte di queste persone l’identità ucraina conta più di quella afgana. È così anche per Noori, che non avrà alcuna pietà per i suoi compatrioti. “Chi invade questo paese insieme ai russi è mio nemico e io lo combatterò, anche se è afgano”. ◆sk
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Questo articolo è uscito sul numero 1495 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati