Intorno alle 15 del 24 ottobre 1968, un elegante manager della Control Data Corporation (Cdc) salì sul palco dell’auditorium del National bureau of standards di Gaithersburg, negli Stati Uniti, per rivolgersi al pubblico del secondo simposio annuale dell’American society for cybernetics.

L’associazione, di cui facevano parte accademici, spie, politici e uomini d’affari, era stata creata pochi anni prima da un agente della Cia. Era stata ideata per contrastare il crescente peso dell’Unione Sovietica nel campo dell’informatica e nell’uso della “cibernetica”, che anticipava l’odierna intelligenza artificiale. Alla fine degli anni sessanta la società statunitense era spaccata dai conflitti esterni e interni, ma la cibernetica prometteva di riportare la situazione sotto controllo, usando i computer per eliminare il caos e rendere la vita di nuovo prevedibile. L’uomo della Control Data Corporation, un confidente della Cia, quel giorno era lì per presentare i “centri di informazione condivisi”, un progetto che avrebbe messo i supercomputer della Cdc al servizio del pubblico per fornire notizie, ricette, monitoraggio della salute pubblica e perfino consigli sui rapporti sentimentali. I computer, diceva, sarebbero stati “volenterosi schiavi al servizio dell’umanità”.

Fino alle 15.32 le visioni di un paradiso cibernetico si riversarono sul pubblico. Poi salì sul palco un uomo alto e magro di quasi quarant’anni. Era straordinariamente bello, con un pizzetto meticolosamente curato che lo faceva sembrare un incrocio tra un professore di letteratura bohémien e una divinità nordica. Dietro di lui c’era un altro uomo, una decina d’anni più vecchio, che indossava un blazer a quadri troppo grande e occhiali rotondi. “Non so chi lei sia, signore, e non è una questione personale”, disse questo all’oratore, mentre lo prendeva per il gomito e lo allontanava dal microfono, “Ma sono stanco di ascoltare questa roba”.

Avery Johnson e Warren Brodey formavano un’improbabile coppia di ribelli. Erano stati tra i primi iscritti all’American society for cybernetics, ma ora stavano guidando una rivoluzione controculturale nel piccolo e serioso mondo dell’informatica. Quando irruppero sul palco, speravano di evitare quella che gli sembrava una catastrofe imminente. Pensavano che le aziende di computer come l’Ibm e la Cdc stessero portando la società su una strada pericolosa.

All’epoca, queste aziende insieme a poche altre si facevano rispettosamente concorrenza per sviluppare e vendere i loro enormi mainframe, la maggior parte dei quali usava ancora schede perforate e serviva a gestire le buste paga e gli inventari. L’era dei personal computer, dei tablet e degli elettrodomestici intelligenti era ancora un sogno lontano, ma quello era un periodo di entusiasmo e sperimentazione. È difficile da immaginare ora, ma nel 1968 non era ancora del tutto chiaro a che cosa servissero esattamente i computer.

Johnson e Brodey credevano che quelle aziende non avessero tenuto conto di una questione filosofica cruciale a proposito della tecnologia su cui stavano lavorando: i computer erano davvero destinati a essere semplici schiavi, condannati all’eterna esecuzione di compiti ripetitivi? O potevano essere qualcosa di più? Potevano diventare artigiani? Mentre gli schiavi obbediscono infallibilmente ai comandi, gli artigiani hanno la libertà di esplorare e perfino sfidare le direttive altrui. I migliori artigiani non si limitano a evadere gli ordini. Ci educano e illuminano, ampliando i nostri orizzonti grazie alla loro abilità e creatività. Johnson e Brodey volevano togliere il potere a chi puntava a produrre un esercito di macchine sottomesse.

Brodey credeva che la rigidità del sistema industriale fosse il motivo per cui la vita di tanti statunitensi era vuota e conformista

Per questo alla fine del 1967 avevano fondato un laboratorio clandestino finanziato da privati sul lungomare di Boston, con l’obiettivo di personalizzare l’informatica quasi un decennio prima che Steve Jobs e Steve Wozniak avessero la stessa idea con la Apple. Il loro piano era coraggioso, utopico e rivoluzionario. Se fossero riusciti a convincere i loro colleghi, la tecnologia che usiamo oggi sarebbe notevolmente diversa.

Ma Johnson e Brodey erano molto più che semplici predecessori della Apple. Johnson aveva ottenuto un dottorato di ricerca in ingegneria elettrica al Massachussets institute of technology (Mit) ed era stato consulente della Nasa. Era sonnambulo, e a volte si svegliava nel cuore della notte, si sedeva sul letto e programmava un computer immaginario. Appassionato di poesia beatnik, nudismo e auto di lusso, era anche l’erede di una considerevole fortuna. Il suo bisnonno aveva fondato la Palmolive.

Brodey, l’ideologo, era un ex psichiatra con un debole per gli eccessi: una volta aveva portato una pistola giocattolo a una seduta con il suo analista. Credeva che la rigidità e la mancanza di interattività del sistema industriale di produzione di massa fosse il motivo per cui la vita di tanti statunitensi era vuota e conformista. All’inizio i computer sembravano in grado di cambiare le cose, ma più Johnson e Brodey li osservavano, più si rendevano conto che potevano favorire il conformismo invece di eliminarlo.

La loro idea dell’informatica non aveva a che fare con le previsioni o l’automazione. La tecnologia che stavano costruendo avrebbe dovuto allargare i nostri orizzonti. Invece di chiedere a un computer di consigliarci un film in base a quelli che avevamo già visto, volevano che scoprissimo e apprezzassimo generi che forse prima non avremmo preso in considerazione. La loro tecnologia ci avrebbe resi più raffinati, critici e complessi, invece che consumatori passivi di repliche di Mozart, Rembrandt o Shakespeare prodotte dall’intelligenza artificiale generativa.

Negli ultimi dieci anni ho cercato le tracce dell’eredità di Brodey e Johnson e del loro laboratorio. A giugno ho cominciato un podcast che approfondisce la loro storia. Il mio viaggio mi ha portato da Ginevra a Boston a Ottawa e a Oslo, nel tentativo di recuperare la loro prospettiva originale, umanistica e in gran parte dimenticata. Volevo capire quando e come la nostra cultura digitale era andata fuori rotta.

Quello che ho scoperto è che i tipi di interattività e intelligenza incorporati nei dispositivi che usiamo ogni giorno non sono gli unici possibili. Quelle che oggi consideriamo caratteristiche inevitabili e naturali del panorama digitale sono in realtà il risultato di feroci lotte di potere tra opposte scuole di pensiero. Oggi sappiamo che la Silicon valley alla fine ha scelto il percorso più conservatore. L’Homo technologicus rispecchia l’Homo economicus moderno, che apprezza la razionalità e la coerenza ed evita la flessibilità, la fluidità e la casualità. I sistemi tecnologici personalizzati di oggi, un tempo strumenti degli anticonformisti, è più facile che restringano le nostre opportunità di essere creativi invece di espanderle.

Considerate il tanto criticato spot dell’ultimo tablet della Apple. In Crush! una colossale pressa idraulica distrugge una montagna di strumenti musicali, libri, macchine fotografiche e opere d’arte, sulle note della hit di Sonny e Cher del 1971 All I ever need is you, lasciando al loro posto solo un iPad ultrasottile. Questo dispositivo, lascia intendere, contiene tutte le capacità degli oggetti demoliti. Non ne avremo più bisogno.

C’era un’altra strada? Forse.

La banda del molo

Nelle foto del simposio si vede un’unica donna: Sansea Sparling (nata Smith), che all’epoca aveva 23 anni ed era l’artista del laboratorio di Johnson e Brodey. Vestita con un abito senza maniche bianco e nero, Sparling sembra l’unica rappresentante della generazione hippy presente all’evento. Ma cosa ci faceva a una conferenza informatica dominata dagli uomini? Anche per la fine degli anni sessanta, la sua presenza mi sembrava improbabile.

Sienna O’Rourke

A giugno sono andato a New Haven, nel Vermont, a trovare Sparling, che oggi ha 79 anni. La sua casa è annidata in una cava di calcare abbandonata, con l’acqua limpida come uno specchio lucido che riflette spettacolari pareti rocciose. Volevo sentire la storia di com’era rimasta invischiata nel progetto di Johnson e Brodey.

Sparling era cresciuta in una piccola città dell’Arkansas e quando aveva avuto la possibilità di andare a studiare arte a Boston l’aveva colta al volo. Per mantenersi aveva fatto lavori saltuari, anche come cameriera nei locali della mafia. A Boston frequentava gli stessi circoli di Avery Johnson, la cui casa a Beacon Hill era una calamita per tutti i tipi di bohé­mien. Un giorno del 1968, mi ha detto Sparling, Johnson aveva accennato a un’opportunità affascinante. “‘Ho incontrato un uomo molto interessante che vuole avviare un progetto’, disse. E io gli chiesi: ‘Che tipo di progetto?’ Mi rispose: ‘Be’, non saprei come descriverlo’”.

Johnson aveva detto che il progetto sarebbe stato finanziato da un certo Peter Oser, un misterioso milionario svizzero che stava per arrivare a Boston. Oser aveva origini illustri. Uno dei suoi bisnonni era John D. Rockefeller, un tempo l’uomo più ricco del mondo. Un altro era Cyrus McCormick, il padre dell’agricoltura moderna. La madre di Oser era così vicina a Carl Jung che gli aveva fatto costruire una casa nella loro tenuta di Los Angeles. Lo psicanalista doveva gran parte della sua fama internazionale al sostegno della nonna di Oser, che una volta aveva definito la sua paziente più difficile.

Sparling aveva incontrato Oser il giorno dopo alle dieci del mattino e la loro conversazione era durata fino alle due di notte. A poco a poco erano emersi i dettagli. “Voleva finanziare un esperimento di diciotto mesi con un gruppo di quattro o sei persone provenienti da diversi ambienti accademici”, mi ha detto Sparling. Per quale motivo? Qualcosa che aveva a che fare con l’ecologia del pensiero, un concetto che inizialmente l’aveva lasciata perplessa. L’ecologia è lo studio della diversità e dell’interconnessione tra i sistemi viventi, “ma non capivo come questo potesse essere collegato a qualcosa che si poteva sperimentare”, ha detto. Eppure lo avrebbero sperimentato.

Sembrava che ci fosse un modo per far coesistere la tecnologia e l’ecologia. Il segreto era il concetto di “reattività”. I primi filoni più conservatori della cibernetica si erano fissati sul modello semplice del termostato adattivo, meravigliandosi della sua capacità di mantenere una determinata temperatura in una stanza. I nostri moderni sistemi di domotica, che intuiscono le nostre preferenze e automatizzano tutto, adattandosi silenziosamente alle nostre esigenze, sono solo versioni più avanzate di questa idea.

Sienna O’Rourke

Ma i ribelli del laboratorio pensavano che questo tipo di automazione fosse l’antitesi della vera reattività. Vedevano le relazioni umane, l’arte e l’identità personale come ecologie aperte e in continua evoluzione che non potevano essere ridotte al modello semplicistico di ottimizzazione del termostato. Si può davvero individuare il cinema, la musica o la persona “giusta” allo stesso modo della giusta temperatura di una stanza? La tv, la musica e le app di incontri di oggi sembrano convinte di sì. I bastian contrari di Boston la pensavano diversamente.

Nel giro di pochi mesi aprirono uno spazio al molo Lewis, nel North End di Boston. L’Environmental ecology lab, come lo chiamarono, occupava un loft al terzo piano in un edificio di granito risalente agli anni ottanta dell’ottocento. Le pareti di mattoni bianchi, i pavimenti in legno scricchiolanti e le travi rustiche gli conferivano un fascino d’altri tempi. Ampie finestre si affacciavano sul porto, evocando il passato storico dell’edificio, che un tempo era servito da magazzino per le merci scaricate al molo sottostante.

Il laboratorio aveva anche una sorta di santo patrono, il famoso teorico della comunicazione Marshall McLuhan, che era amico di Brodey e aveva visitato il posto. McLuhan promuoveva l’idea degli “antiambienti”: spazi particolari che illuminano elementi trascurati del nostro quotidiano. Il tipo di spazi, diceva McLuhan, che “raccontano l’acqua ai pesci”. Il laboratorio era uno di questi antiambienti, che voleva scuotere i visitatori dalla paralizzante uniformità del loro mondo. Tutto aveva lo scopo di stupire, provocare e stimolare.

I visitatori del molo Lewis 33 paragonavano la loro esperienza agli effetti delle droghe psichedeliche. Entrando attraverso un’imponente porta di metallo, si trovavano di fronte enormi sacchi di cellophane che andavano dal soffitto al pavimento. I sacchi, dotati di sensori, si gonfiavano e sgonfiavano, richiedendo un certo sforzo per passarci in mezzo. Una volta superata quella barriera, gli ospiti si trovavano ancor più disorientati da un’eclettica collezione di oggetti, tra i quali si distinguevano due computer ingombranti e costosi, coperti di cavi. La metà posteriore di un’auto Ford era il luogo preferito per scambiarsi idee. Una gigantesca cupola simile a una campana di vetro faceva da spazio per le conversazioni private e, ogni tanto, per fumare erba (erano gli anni sessanta dopotutto). Per non parlare dei dipinti, degli strumenti musicali e dei vari altri strani materiali, tra cui una gigantesca lastra di gommapiuma.

Il soffitto era addobbato con strisce di poliestere, due videocamere, un paracadute. Una struttura simile a un divano, appesa a delle molle, era lo spazio per le riunioni di lavoro. Soprannominata “The Cloud” (un nome che si sarebbe rivelato profetico), questa installazione a forma di torta era composta da sei sezioni collegate, in modo tale che quando una persona si sedeva e si muoveva influenzava l’esperienza di tutti gli altri. Sotto, delle luci colorate azionate da sensori tremolavano in risposta al movimento. Sparling si era assunta la responsabilità di garantire la sicurezza del Cloud. “Cercare molle di due metri e mezzo a Boston è stata un’avventura interessante”, mi ha detto.

Sienna O’Rourke

Ad aiutarla nella decorazione del laboratorio era stato Oser, che aveva finanziato l’intero esperimento e contribuito con la sua esperienza di scenografo al progetto. Questo era stato solo l’ultimo capitolo della sua eclettica carriera. Alla fine degli anni quaranta al Reed college di Portland, in Oregon, aveva conosciuto i poeti della futura beat generation. Si era interessato a Scientology quando si chiamava ancora Dianetics e una volta aveva seguito il suggerimento di una tavola ouija di trasferirsi in Angola, dove aveva gestito una segheria. Aveva prodotto film della nouvelle vague francese e possedeva un’azienda tecnologica in Svizzera, dove era nato.

Oser aveva anche una grande passione per la fantascienza. Il romanzo Dune di Frank Herbert, con la sua complessa visione dell’ecologia, aveva lasciato in lui un segno indelebile. Aveva trovato uno spirito affine in Brodey, che era rimasto particolarmente colpito da una riga nell’appendice del libro. Questa definiva la “produzione e il mantenimento di modelli coordinati di diversità sempre maggiore” un principio fondamentale della vita. Oser e Brodey avevano immaginato il loro laboratorio come un posto in cui produrre macchine per la diversità perpetua, progettate non per semplificare ma per arricchire l’esperienza umana.

Era più facile a dirsi che a farsi. Una delle loro prime avventure in questo strano territorio era stato “l’abito da ballo”, un indumento che permetteva a un ballerino di influire sulla musica che stava ascoltando. Avevano inserito fili di rame in una serie di fasce elastiche, che poi erano state cucite per formare una tuta che copriva tutto il corpo in modo da catturare ogni movimento. “Se hai una fascia che va dall’avambraccio alla parte superiore del braccio e pieghi il gomito, la fascia si allunga e il rame invia un segnale”, mi ha spiegato Sparling, che coraggiosamente si era offerta volontaria per testarla.

I segnali venivano trasmessi a un dispositivo che generava e modificava la musica in base ai movimenti del ballerino. Il risultato era tutt’altro che armonioso, ma l’esperimento serviva a dimostrare una tesi filosofica più ampia. La danza diventava qualcosa di qualitativamente diverso quando poteva influenzare l’“ecologia” della musica. Stabilire uno scambio continuo tra movimento e suono ridefiniva entrambe le forme d’arte. Anche se la persona che indossava la tuta non si trasformava in Rudolf Nureyev o Richard Wagner, acquisiva una comprensione più olistica del movimento e del suono. Qualunque fosse il ruolo che la tecnologia svolgeva in questo caso, non era certamente quello di uno schiavo.

“A questo punto l’alienazione è abbastanza fottutamente completa. E in buona parte è colpa dei computer”

Il progetto successivo traeva ispirazione dai traumi professionali di Brodey. All’inizio della sua carriera aveva visto gli ospedali psichiatrici come prigioni in cui i pazienti subivano trattamenti brutali senza poter reagire. Quando l’ho incontrato nel 2014 aveva poco più di novant’anni, ora ne ha cento. Mi ha raccontato i suoi scontri con gli amministratori dell’ospedale. “Volevano che facessi l’elettroshock a dei ragazzi”, ha detto. Ma lui si era rifiutato e presto aveva dovuto trovare un altro lavoro.

Sparling ricorda che Brodey si poneva una domanda: “E se invece di essere legati a un letto d’ospedale, i pazienti potessero influire sull’ambiente mentre sono contenuti, rendendolo non solo tollerabile ma anche piacevole?”. Quest’idea aveva portato a una coperta di contenzione reattiva, che era morbida se il paziente rimaneva fermo ma si stringeva se faceva movimenti bruschi. Avevano ideato un metodo basato su una sostanza chimica che passava da liquida a gassosa a contatto con la pelle.

L’invenzione aveva segnato un nuovo capitolo per il laboratorio, portando a quello che i fondatori avevano chiamato flexware, una fusione di hardware e software che combinava materiali concreti con la personalizzazione offerta da un programma per computer. Ben presto Brodey immaginò sedie, materassi e perfino biberon reattivi. Gli oggetti di uso quotidiano potevano essere liberati dai materiali rigidi, le loro forme potevano seguire non solo la funzione, ma anche l’uso.

Niente è ideale

Per trent’anni la nostra comprensione della tecnologia e del suo ruolo nelle nostre vite è stata plasmata dall’ideologia dominante della Silicon valley, che nel mio libro Internet non salverà il mondo (Mondadori 2014) ho definito “soluzionismo”. Il soluzionismo immagina che tutti i problemi, siano essi personali, sociali o politici, possono essere risolti attraverso la tecnologia. Entusiasti dei progressi dell’informatica, della connettività e dei guadagni che consentiva, gli inventori della tecnologia sostenevano l’idea che i loro prodotti fossero lo strumento definitivo per risolvere qualsiasi malessere sociale.

Il pensiero soluzionista ci ha dato città intelligenti senza attriti, in cui i sensori monitorano tutto, dal traffico alla gestione dei rifiuti. Ha portato allo sviluppo di dispositivi indossabili che rilevano la nostra salute e social media che pretendono di migliorare i nostri rapporti personali. Ma ha anche ridotto a dati le complesse esperienze umane, ignorando i contesti in cui sorgono i problemi. L’incessante spinta all’ottimizzazione minaccia di produrre risultati ridicoli o inquietanti come quelli immaginati dalle serie tv Silicon valley e Black mirror.

Il mio interesse per il laboratorio di Boston era nato dal sospetto che i suoi creatori fossero stati dei pionieri del pensiero soluzionista. Ma dopo aver parlato con le persone che lavoravano al molo Lewis, mi sono reso conto che erano in netta opposizione a questo tipo di tecnologia intelligente. A differenza di alcuni detrattori delle grandi aziende tecnologiche di oggi, non sostenevano un ritorno alla tecnologia vintage o “stupida”. Immaginavano piuttosto una sorta di intelligenza digitale che per noi oggi è quasi inimmaginabile. Vedevano le persone come volubili e in continua evoluzione, qualità che non consideravano difetti. Nel 2014, quando ho chiesto a Brodey della possibilità che i suoi materassi e sedie reattivi fossero in grado di trovare una posizione ideale per ognuno, la sua risposta mi ha colpito: “Non era quello il nostro scopo. Niente è ideale, perché siamo in continuo cambiamento. Non siamo come le macchine”.

L’esasperante efficienza dei nostri schiavi digitali ha oscurato l’idea che l’autonomia umana dipende da una costante correzione di rotta. Come osservava Brodey nel 1970, “le scelte non sono processi intellettuali. Le facciamo agendo, esplorando, scoprendo cosa ci piace man mano che procediamo”. Sparling mi ha detto che una domanda chiave che guidava il lavoro del laboratorio era: “Cosa possiamo scoprire che consente a una persona di imparare e progredire in qualsiasi cosa stia cercando di fare?”. Il filo conduttore che univa progetti come il vestito da ballo e la coperta di contenzione, ha detto, era la loro celebrazione dell’apprendimento improvvisato – come nel jazz – in quanto valore fondamentale che dovrebbe essere alla base della tecnologia interattiva.

La svolta di Negroponte

“Immagina un futuro in cui un assistente virtuale può leggere ogni giornale, guardare e ascoltare tutte le trasmissioni televisive e radiofoniche del pianeta e quindi costruire un riepilogo personalizzato”. Quest’idea visionaria viene da Essere digitali (Sperling & Kupfer), il best seller del 1995 di Nicholas Negroponte, che era stato un protetto di Brodey. Negroponte è uno dei fondatori dell’Mit media lab, che descrive come una Bauhaus tecnologica, in cui si fondono arte e informatica. Il suo lavoro ha profondamente influenzato la rivoluzione digitale.

Negroponte, uno dei primi sostenitori ed editorialista della rivista tecno-utopica Wired, aveva un talento per le visioni stravaganti del futuro che piacevano ai suoi lettori. Chiamava il suo assistente per la lettura dei giornali “The Daily Me”. Fantasticava sulla sua capacità di “mescolare notizie da prima pagina e storie ‘meno importanti’ relative a conoscenti, persone che avrebbe visto il giorno dopo e luoghi in cui stava per andare o da cui era appena arrivato”. Per un lettore del 2024, suona molto come i feed dei social media che abbiamo imparato ad amare e odiare: funzionano in modo affidabile come qualsiasi termostato, e la loro affidabilità è dovuta all’osservazione costante del nostro comportamento.

Negroponte fu uno dei primi alleati della banda del molo Lewis. Da giovane professore di architettura, visitava il laboratorio e partecipava ai seminari di Johnson alla Sloan school dell’Mit. Brodey, che aveva vent’anni di più, era stato per lui un mentore importante. Quando l’ho intervistato a ottobre del 2023 mi ha descritto Brodey come “una delle prime e più importanti influenze” sul suo pensiero. Negroponte viene da una ricca famiglia greca. Suo padre era una figura di spicco nei trasporti marittimi. Il giovane Nicholas voleva andare a fare lo scultore a Parigi, ma aveva proposto al padre un accordo: prima di inseguire i suoi sogni artistici avrebbe studiato per cinque anni all’Mit. Non arrivò mai a Parigi. Ma prese diverse lauree e diventò professore all’istituto, interrompendo solo brevemente la sua carriera accademica per un periodo di lavoro all’Ibm nel 1966, dove, come mi ha detto Brodey, “c’erano i soldi”.

Sienna O’Rourke

Brodey ha descritto la missione di Negroponte all’Ibm come una ricerca per capire in che modo i loro computer potevano essere utili ad architetti, progettisti e designer. Ma alla fine degli anni sessanta aveva cambiato tattica. Invece di proporre i computer ai professionisti, aveva promosso i modi in cui potevano aiutare la gente comune a fare a meno di questi esperti. Negroponte ha sviluppato molti dei concetti del gruppo del molo Lewis. Influenzato dai loro atteggiamenti giocosi, ha capito che le future tecnologie intelligenti potevano essere stravaganti, immaginando ascensori con personalità che vanno dalla cortesia alla scontrosità all’umorismo. Aveva adottato anche le idee di Brodey di “ambienti intelligenti” e “architettura morbida”, suggerendo che l’uso di sensori, computer e algoritmi negli ambienti avrebbe consentito adattamenti automatici alle nostre esigenze e abitudini. Il suo obiettivo era raggiungere un livello di personalizzazione oltre le capacità umane. Reattivo, sì, ma ben lontano da quello che Johnson e Brodey stavano sognando.

Nel 1995 Negroponte aveva ormai completamente ceduto all’idea che la curiosità umana poteva essere valutata, prevista e soddisfatta da una programmazione intelligente, con un tocco di serendipità iniettata algoritmicamente. Questa convinzione è stata il tema unificante del suo lavoro al Media lab. Da lì, l’idea è arrivata fino alla Silicon valley, trovando infine la sua perfetta manifestazione nei social media e nelle playlist fatte da un algoritmo. Quando ha scritto Essere digitali, Negroponte aveva ormai negoziato un trattato di pace tra gli schiavi e gli artigiani. Riciclando una metafora che ha usato per la prima volta all’inizio degli anni settanta, sosteneva che le tecnologie digitali dovrebbero essere come maggiordomi inglesi ben preparati.

L’aula e il salotto

Gli scettici potrebbero dire che il mondo del 2024 somiglia più alla cupa profezia di Brodey di un’umanità catturata dalle macchine che alla visione degli utopisti tecnologici, in cui eserciti di schiavi lavorano volontariamente per noi. Quando l’ho incontrato nel 2014, Brodey ha detto: “A questo punto l’alienazione è abbastanza fottutamente completa. E in buona parte è colpa dei computer”.

A quel tempo non l’ho incalzato su cosa intendesse dire con la parola “alienazione”. Ma negli ultimi dieci anni siamo rimasti in contatto, e la ragione del pessimismo di Brodey mi è diventata più chiara. Quasi mezzo secolo dopo aver interrotto quella conferenza sulla cibernetica, la sua preoccupazione è stata a malapena affrontata. I produttori di tecnologia, indossando una sorta di camuffamento controculturale, ci hanno venduto i personal computer come sempre più umani, sempre più intimi, semplicemente rimpicciolendo i telefoni e rendendoli più accessibili e facili da usare.

Per Brodey l’esempio migliore di ambiente intelligente era l’aula, uno spazio progettato per accendere nuovi desideri. Per Negroponte invece era il salotto, un luogo dove soddisfiamo i nostri bisogni di intrattenimento, shopping e occasionalmente lavoro. Vivendo, come facciamo oggi, nel salotto di Negroponte, possiamo solo chiederci come sarebbe il nostro universo digitale se fosse stato modellato su un’aula.

Le foto

◆ Le foto di queste pagine sono state create con l’intelligenza artificiale (ia). Fanno parte del progetto Planet fantastique, in cui l’artista britannica Sienna O’Rourke immagina un mondo in cui l’ia è alleata dell’umanità.


La visione di Negroponte ha vinto in gran parte perché le aziende statunitensi e il Pentagono hanno favorito soluzioni semplici e utilitaristiche. Non avevano alcun interesse per i vestiti da ballo e i divani a nuvola. Invece hanno concesso generosi finanziamenti al precursore del Media lab, l’Architecture machine group, che si espanse e prosperò per tutti gli anni settanta grazie alle sovvenzioni dell’agenzia militare Darpa e di altri dipartimenti del Pentagono per lavorare su progetti interattivi come le prime forme di realtà virtuale. Il laboratorio di Johnson e Brodey è andato incontro a un destino diverso, anche a causa dei conflitti interni. I due si scontravano spesso con Oser e Sparling, e gli altri restavano presi in mezzo. Le loro grandi ambizioni aggravavano i loro problemi. Avevano difficoltà anche a far funzionare i loro prototipi.

Questi fallimenti gettarono Oser in una profonda depressione. Morì d’infarto nel 1970, un anno dopo aver ritirato i suoi finanziamenti all’impresa. Sparling cominciò a lavorare come fabbro e, in seguito, divenne insegnante. Johnson e Brodey continuarono i loro sforzi nei primi anni settanta, diventando sempre più radicali. Dato che le loro attività non fruttavano niente, Johnson doveva pagare tutte le spese, e questo mise ulteriormente alla prova il loro rapporto. Rifiutarono i finanziamenti non solo dall’esercito ma anche dall’Mit, che ritenevano compromesso con la guerra del Vietnam. Anche i loro tentativi di assicurarsi il sostegno delle aziende fallirono, dato che ben poche erano interessate ai loro prodotti reattivi.

Deluso, nel 1973 Brodey lasciò gli Stati Uniti, i suoi cinque figli e la sua ex moglie. Si trasferì in Norvegia e diventò maoista. Pochi anni dopo scriveva lettere al suo amico McLuhan da una fonderia, dove lavorava come operaio. Il suo risveglio politico lo aveva portato a scoprire una dura verità: la diversità di scelta che il suo laboratorio aveva sostenuto non poteva essere raggiunta solo attraverso la tecnologia.

Nonostante il fallimento del laboratorio, le intuizioni di Johnson e Brodey ci trasmettono un messaggio importante. Se vogliamo una tecnologia che allarghi le nostre scelte, dobbiamo ammettere che qualcuno deve finanziarla, proprio come i nostri governi finanziano l’istruzione pubblica, le arti e la cultura. Raggiungere questo obiettivo su larga scala richiederebbe uno sforzo paragonabile a quello che ha dato origine allo stato sociale.

Considerate questo. Scaricare tutta la musica classica del mondo nella vostra playlist di Spotify, per quanto possa raffinare i suoi consigli, non vi trasformerà in intenditori. Non c’è un modo di usare le nuove tecnologie per svolgere questo compito? Ecco un’idea radicale che la Silicon valley non accetta: la tecnologia non riguarda solo il congelamento, la stratificazione e la monetizzazione dei gusti esistenti. Può anche approfondirli, affinarli e democratizzarli. Questo tipo di approccio post-soluzionista sembra più realistico del continuare a sperare che legioni di schiavi algoritmici possano risolvere tutti i nostri problemi. Nonostante il clamore, difficilmente l’ia generativa, anche se diventasse accessibile gratuitamente, scatenerà un’ondata rivoluzionaria di creatività, e potrebbe anzi ostacolarla, privando artisti e insegnanti di un reddito stabile. Neanche rendere i tablet sempre più sottili e potenti servirà a questo scopo.

Forse Johnson e Brodey avrebbero dovuto capire chi avevano davanti nel 1968. Dopo aver invaso il palco e spiegato la loro idea, invitarono chiunque fosse interessato a salire e intervenire. Solo due persone lo fecero. Una di loro, un anziano signore con il farfallino, luminare della cibernetica ed ex psichiatra, salì sul palco solo per ristabilire l’ordine. Disse che chiunque fosse interessato a unirsi agli hippy cibernetici avrebbe potuto farlo a pranzo il giorno successivo, a condizione che promettesse di non lanciare in giro cose da mangiare. E così finì la prima – e ultima – rivolta cibernetica. Fu una vicenda di breve durata, ma la sua lezione era chiara: una tecnologia con cui possiamo davvero interagire è ancora un sogno lontano. ◆ bt

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Evgeny Morozov è un sociologo esperto di tecnologia e informazione. È autore di libri e dei podcast The Santiago boys (Chora media/Post-Utopia) e A sense of rebellion (Post-Utopia).

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Questo articolo è uscito sul numero 1579 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati